Nell’incedere del proprio percorso politico “Indipendenza” dovrà giocoforza confrontarsi con un fatto, cioè che le rivendicazioni formulate (solo per citarne alcune nazionalizzazioni e intervento pubblico nell’economia, riorientamento geopolitico con uscita anzitutto da UE e NATO, riaffermazione della sovranità in campo energetico e monetario) siano, oggettivamente, obiettivi non immediatamente percepibili come concretamente attuabili in un frangente temporale medio/breve o, comunque, non direttamente in grado di riverberarsi nella vita delle persone per la non sempre immediata intelligibilità degli snodi tecnici riconnessi. Questo può rischiare di compromettere la capacità di cooptazione di singoli e realtà aggregate le più varie; tale fatto assumerà tanto maggiore importanza quanto più ampia sarà la visibilità raccolta attraverso i vari canali di operatività (rete internet, foglio di lotta, diffusione della rivista, iniziative e incontri, spazi sui media…).  

Va chiarito senza alcun margine di equivoco che lo scavo teorico e di analisi non dovrà subire alcun ridimensionamento o battuta d’arresto, né tantomeno dovrà esservi alcun ripiegamento su tatticismi di sorta, quanto andrà affiancato da una sensibilità attorno ad alcuni temi a mo’ di ‘ariete’, in grado di rendere immediatamente intellegibili le direttrici strategiche nelle quali si articola la proposta politica formulata. Questo passaggio sarà quindi una prova di maturità politica perché, a prescindere notazioni che svolgerò in questa sede, denoterà la capacità di tradurre in concreti raggiungimenti quanto viene formulato come orizzonte di rivendicazioni, declinando quindi in istanze politico/amministrative le direttrici di azione; nulla a che vedere, quindi, con un problema di ‘piazzare un prodotto’, si tratterebbe difatti di replicare la logica egemone senza metterne in discussione gli assunti di base, secondo i quali la politica, come qualsiasi altro bene, deve essere ‘consumata’ da soggetti messi di fronti a proposte simili come, appunto, i prodotti sullo scaffale di un supermercato.  

Occorre nondimeno rifuggire vigorosamente l’etichetta di ‘utopisti’ e ‘sognatori’: di progetti politici strutturati su grandi proclami se ne trovano a iosa, in particolare nel mondo della sinistra e la rete ha oggettivamente amplificato questo fenomeno, il tema che pongo in queste righe è, quindi, anche quello della formazione di un’identità collettiva immediatamente percepibile. 

Operare per finalità ambiziose è ineludibile anche, e proprio per, incidere negli equilibri storicamente dati, pertanto si rende necessario elaborare delle istanze e far propri temi che non siano solo ‘radicali’ quanto anche, per la loro natura, in grado di far percepire a un pubblico il più vasto ed eterogeneo possibile tutti i riverberi della ‘filiera della dipendenza’, su queste pagine minuziosamente analizzata.  Le notazioni che vado a svolgere potrebbero riassumersi con uno slogan: “liberare lo spazio, liberare il tempo”, con ciò intendo dire che la mia riflessione si è direzionata su alcuni specifici ambiti, di seguito riportati, rispetto ai quali saranno da strutturare campagne e in/formazione nella prospettiva di strutturare movimenti di opinione con la più ampia massa critica possibile.  

Tali spunti cercano peraltro di abbozzare alcune risposte alla necessità di riprendere una stagione di ‘rivendicazioni positive’ lanciando temi nuovi e non solo, quindi, organizzando più o meno efficaci ‘trincee’ per arginare l’ondata reazionaria in essere rincorrendone l’agenda.  

Patrimonio pubblico e spazi collettivi 

Ciascuno di noi ha esperienze, dirette o attraverso i media, di gruppi o aggregazioni che operano per la difesa di alcuni specifici beni in senso lato pubblici o collettivi: parchi giochi, canili, scuole, ospedali, biblioteche, passando per gli ecosistemi (aree marittime o boschive, o anche soltanto porzioni di territorio da preservare dalla speculazione edilizia) fino ai temi delle case popolari, coinvolgendo quindi il diritto all’abitare, o i beni comuni per eccellenza (acqua, aria con particolare riferimento ai ‘genitori antismog’ o alle ‘mamme contro gli inceneritori’…).  

Soggettività meritorie cui però manca molto spesso un passaggio, dato da una chiave di lettura teorica: tutto il diritto europeo, e con tale locuzione non ricomprendo solo il diritto comunitario quanto anche l’elaborazione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), ha costruito nelle ultime decadi una vera e propria “mitologia del proprietario”: la traslazione dal perimetro pubblico a quello privato porta necessariamente con sé l’escludibilità, cioè la possibilità per il proprietario di disciplinare le modalità di accesso e fruizione del proprio bene, un tempo facente capo agli enti esponenziali degli interessi della collettività. Non più il cittadino ma il proprietario e il ‘consumatore’, messi al centro come soggetti di diritti nel quadro di un’accresciuta valorizzazione del ruolo del ‘patrimonio’ come strumento per realizzare gli obiettivi autodeterminati dell’individuo, beninteso in un contesto di delegazione al mercato della regolazione delle relazioni intersoggettive. Da qui una corsa a preservare i beni privati dalle interferenze di natura pubblicistica (cito a mo’ di esempio l’elaborazione sulle indennità di esproprio per pubblica utilità), fenomeno questo che potrebbe in astratto essere condivisibile se fosse semplicemente un ampliamento delle prerogative e delle libertà dell’individuo; il suo riverbero tuttavia è stato una speculare svalutazione della medesima nozione di ‘patrimonio’ per la realizzazione dei fini eterodeterminati, cioè quelli pubblici.  

Non solo, la spirale del debito conseguente alla liberalizzazione dei movimenti di capitale con la correlata crisi fiscale dello Stato cui si riconnettono i vincoli di bilancio imposti a cascata a tutti gli enti, rende necessitata la politica di privatizzazione, pertanto rifiutarla senza agire sulle cause è inefficace sul piano del riorientamento degli indirizzi politici. 

Il processo di spoliazione del patrimonio ha, ormai, raggiunto una dimensione strutturale e talmente pervasiva tale per cui, anche chi, come chi scrive cerca di fare, voglia cimentarsi a seguirlo con attenzione si trova pressoché impossibilitato a tenere conto dei piani di alienazioni, privatizzazioni e dismissioni attuati da vari enti e istituzioni1. Opzioni economiche del tutto inefficaci, peraltro, atteso che nella persistenza di una crisi di domanda non ha alcun senso porre in essere politiche di offerta, se non, appunto, quello di creare una stagione di ‘saldi permanenti’ ai danni della collettività, defraudandola di quanto sedimentato in intere generazioni non solo con conquiste sociali e lotte ma anche, ad esempio, con lasciti ereditari elargiti financo per paternalismo ma che non di rado si sostanziano in terreni, palazzi, opere pie…  

Cito senza alcuna pretesa di completezza il fatto che l’ex Zecca dello Stato diventerà un hotel di lusso, la Regione Toscana, a guida ‘democratica’ ha lanciato un maxipiano di alienazioni di immobili di pregio per circa 700 milioni di euro, la proposta lanciata dal sindaco di Venezia Brugnaro di vendere uno dei più noti quadri di Klimt presenti nei Musei Civici di Venezia, oltre a un numero imprecisato di palazzi storici nella città lagunare, il ciclo di privatizzazioni varato dal governo Letta e proseguito da quello Renzi, sia dirette (Poste, Ferrovie, ENEL…), che indirette con la cessione di rami e settori da parte delle stesse imprese a prevalente controllo pubblico (la chimica, ad esempio con la ex EniChem ora Versalis ceduta a un fondo a stelle e strisce). Per aver un’idea concreta di questo fenomeno, tuttavia, consiglio di scorrere a campione i piani di alienazione immobiliare pubblicati su internet degli enti locali, a partire dai comuni. 

Si scopre facilmente che è un fatto che riguarda palazzi, complessi architettonici e aree urbane/periurbane sotto le nostre case, ambienti e beni che abbiamo sempre visto e che hanno sempre fatto parte delle nostre vite.  

Una vera e propria spoliazione del nostro habitat di vita. Non si dimentichi che i processi di privatizzazione hanno una ben precisa connotazione ideologica poiché lo svuotamento della proprietà collettiva variamente declinata costituisce sia un processo mirante ad arginare le capacità di intervento e allocazione della sfera pubblica sia un nuovo strumento per la creazione di esternalizzazioni parassitarie e operazioni economiche pilotate, basti pensare ai ribassi d’asta o alla stipula di onerosi contratti di locazione per ospitare uffici e servizi, alimentando quindi quel pernicioso circuito di malaffare tante volte contestato dalle forze di opposizione, a partire dal Movimento 5 Stelle. 

Senza aggredire le rendite delle oligarchie vecchie e nuove nessuna ‘moralizzazione’ è possibile, quindi la battaglia per il patrimonio pubblico incrocia molteplici direttrici strategiche attorno alle quali vi può essere una sensibilità in nuce da direzionare verso autentiche finalità di liberazione.  

Prossima fermata, utopia: autogestione e imprenditorialità  

La VIO.ME. di Salonicco è divenuta il simbolo di tutte le autogestioni operaie in esito alla crisi di questi anni, su quel gruppo di lavoratori è stato realizzato un docufilm dal titolo, appunto, Prossima fermata, utopia2; l’aggressione in atto alle ragioni del lavoro e della convivenza trova nell’attività di impresa un terreno di scontro cruciale. Non solo le delocalizzazioni ma anche le chiusure, i fallimenti e le svariate tipologie di procedure concorsuali e parafallimentari stanno decostruendo il nostro tessuto produttivo a ogni latitudine.  

È evidente, quindi, che una legge quadro sull’autoimprenditorialità, il recupero di unità produttive e l’autogestione è una rivendicazione improcrastinabile. Se è vero, infatti, che i casi nei quali si è dato corso a operazioni di workers buyout (riacquisto da parte dei lavoratori dell’azienda) sono già ora svariati è altrettanto vero che questo tipo di operazioni si sono servite in larga parte degli strumenti giuridico-economici generali. L’unico intervento in termini normativi recentemente intervenuto è l’articolo 11 comma II del decreto legge 23/12/2013 n.145 che attribuisce un diritto di prelazione nel fallimento o nelle procedure concorsuali alle cooperative costituite da ex dipendenti. Innovazione importante ma del tutto disancorata da una legislazione organica volta a disciplinare e incentivare questo tipo di esperienze: un diritto di prelazione ‘sulla carta’ significa assai poco se non vi sono adeguati strumenti di supporto e incentivo per questo tipo di esperienze.  

Un vuoto che occorre colmare con una più vasta articolazione di proposte: mancano strumenti di coinvolgimento societario e amministrativo degli enti locali. Molte realtà in crisi, difatti, sono spesso saldamente radicate nelle comunità dove operano, quindi è gravissimo che gli enti locali, esponenziali degli interessi di quelle comunità, non possano adiuvare e mettere a disposizione in un quadro normativo definito le proprie strutture e risorse per questo tipo di esperienze, così come non è stata riconosciuta alcuna esenzione fiscale per la prima, delicata, fase di vita. Mancano altresì convenzioni con gli ordini professionali (notai, commercialisti, avvocati) per l’individuazione di figure preposte a seguire questo tipo di posizioni in regime di gratuità per le nascenti soggettività economiche autogestite.

L’unico embrione in questa direzione, sia pur nel quadro ideologico/normativo attuale tutto proiettato a delegare al ‘mercato’ la soluzione delle crisi aziendali, è quello compiuto dal Tribunale di Treviso con il Protocollo d’intesa sul progetto denominato ‘Rete di supporto alle imprese in crisi’3 siglato fra il Tribunale, Unindustria Treviso e l’Ordine dei Commercialisti di Treviso.  

È evidente come sia un paradosso che salvaguardare i livelli occupazionali, l’avviamento e la continuità aziendale, con particolare riferimento alle risorse immateriali, sia un ambito nel quale le organizzazioni padronali si muovano prima di sindacati e partiti della sinistra!  

In realtà l’Italia godeva di un interessante strumento normativo in questo senso, la legge Marcora4 (legge 49/1985), che mirava proprio a supportare questo tipo di iniziative con uno speciale fondo/linea di credito di carattere pubblico5 improntata sull’idea di scommettere sulle capacità delle maestranze di rilanciare le imprese. 

Inutile dire che finì sotto la scure di Bruxelles come, manco a dirlo, ‘aiuto di Stato’. L’articolata ‘Comunicazione’ (C.309/3 del 1997, disponibile in internet nel sito della GUUE) della Commissione è di un cinismo agghiacciante, tanto più che sarà la stessa UE a riproporre- sulla carta- le istanze dell’innovativa legge italiana nel parere del Comitato economico e sociale sul tema “Cooperative e ristrutturazione” (pubblicato in GUUE il 29/06/2012 C.191/56).  

Di fatto l’Unione Europea ha eliminato questo strumento di democrazia economica e anche oggi, pur esistendo ancora l’ente preposto -Soficoop- a supportare questo tipo di iniziative, ne sono mutati profondamente le finalità oltre al fatto che le linee di credito di carattere pubblico, secondo quanto riportato dal sito del Ministero dello Sviluppo Economico, godono di uno stanziamento di 9,8 milioni di euro, una cifra, con ogni evidenza, ben lontana dal fabbisogno di una vera rimodulazione degli indirizzi economici; in questo senso ancora una volta appare in tutta la sua importanza il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti: solo con una vera riorganizzazione di tale istituzione quale strumento di mutualismo creditizio, democrazia economica e utilizzo sociale del risparmio potrà esservi un reale supporto ad iniziative imprenditoriali su basi ‘nuove’.  

Altro tema chiave è quello delle amministrazioni giudiziarie/commissariali, rispetto alle quali nessuna voce in capitolo è riservata alle maestranze, con l’esito che un condannato, sia pur non in via definitiva, per il rogo ThyssenKrupp può essere nominato direttore generale all’ILVA dai commissari del governo.  

Ultima chiosa per quella pletora di opinionisti che si sciacquano quotidianamente la bocca con la creazione del ‘miglior ambiente possibile per l’attività di impresa’, ebbene nessun regime di agevolazione/incentivo vi è, ad esempio, per altre imprese o operatori economici che vogliano cooperare o integrarsi con le soggettività rilevate dai lavoratori; penso in particolare a realtà di settori complementari/affini o anche, semplicemente, ai fornitori cui dovrebbe essere concesso di dilazionare a propria volta le scadenze fiscali qualora accettino di fare, e dare credito, fornendo beni e servizi, al nascente soggetto economico. Non ‘utopie’ quindi, ma luoghi concreti di agibilità economica dai quali ripartire con un nuovo protagonismo della classe lavoratrice.  

A fine stipendio avanza sempre troppo mese 

Quello citato è uno slogan coniato nel corso del ‘controsemestre europeo’, organizzato in occasione della presidenza italiana (secondo semestre 2014) del Consiglio UE, una delle blande iniziative di contrasto al ‘Bruxelles consensus‘ purtroppo non sfociate in un movimento organico di contestazione a tale assetto di governo. Al di là di tale amara constatazione è ormai un dato noto e, purtroppo, condiviso da strati amplissimi di popolazione -verrebbe da dire il ‘99%’ per tornare a Occupy Wall Street– che, a fronte di retribuzioni (parlare di salari e stipendi mi pare, in certi casi, davvero eccessivo) sempre più magri ed erosi, non solo nel loro ammontare attuale ma anche, ad esempio, nella loro proiezione previdenziale, atteso che, come noto, le ‘partite IVA’ sono destinate, dato per immutato l’attuale quadro economico-legislativo, a non avere diritto a un trattamento pensionistico, vi siano ridottissime fasce di popolazione che percepiscono trattamenti stipendiali e parastipendiali sideralmente più alti della stragrande parte delle persone.  

Pochi che guadagnano molto, molti che guadagnano poco. Il problema dello iato fra retribuzione dei soggetti apicali e degli altri lavoratori abbraccia tanto il settore privato che quello pubblico: non solo nelle società private, a partire dalle banche, quanto anche nelle pubbliche amministrazioni sono sempre più diffusi stipendi e trattamenti economici estremamente divaricati. D’altro canto la mitologia ‘manageriale’ ha pervaso profondamente tutte le nostre istituzioni, tanto centrali che territoriali: le voci integrative (‘premi di risultato’, ‘incentivi’…) tipiche del settore privato sono sovente applicate anche presso gli enti pubblici. Nel settore privato, peraltro, a questo tipo di trattamenti non si è quasi mai accompagnato a una ‘responsabilità’ maggiore atteso che il conto della crisi, quando è arrivato, è stato girato ‘a piè di lista’ alla collettività con i noti corollari di salvataggi a fondo perduto, ristrutturazioni con licenziamenti di massa, svendite di asset strategici… Date tali premesse è evidente che strutturare una battaglia per una forbice retributiva vertice/base è un grande tema per una sinistra che voglia attribuire un significato a questa appartenenza. Non si tratta solo di arginare gli appetiti dei ‘pochi’ quanto, e soprattutto, di agganciare gli stipendi dei molti a quel tipo di figure. È evidente che, per mantenere in equilibrio la proporzione, non vi potranno essere dei ‘raddoppi’ negli emolumenti dei soggetti apicali perché ciò significherebbe raddoppiare tutte le altre corresponsioni stipendiali, così come anche un modesto aumento ‘ai piani alti’ si riverbererebbe automaticamente a beneficio dei soggetti con trattamenti più modesti. Ovviamente andrebbe strutturata una proporzionalità che tenga conto delle mansioni, delle responsabilità e, chiaramente, dei volumi d’affari dell’impresa ma, nondimeno, assumere la centralità di questo tema potrebbe portare una proposta concretamente perequativa nel dibattito sulla preservazione del potere d’acquisto dei salari. È indubbio che operare in questo senso la sovranità, declinata nella centralità del contratto collettivo di lavoro derogabile solo in meglio, è un presupposto ineludibile ma è altrettanto vero che già ora vi siano delle realtà che hanno assunto questo tema nella propria politica salariale, cito a mo’ di esempio Banca Etica; sul piano delle trattative sindacali e della contrattazione decentrata tale tema potrebbe quindi essere posto laddove, concretamente, ve ne possano essere i presupposti in termini di rapporti di forza. 

Il corpo a maggese: genitorialità e lavoro7 

Nel suo ultimo lavoro, Una rivoluzione ci salverà (BUR, 2015), la giornalista e attivista canadese Naomi Klein racconta del suo sofferto percorso di concepimento del figlio (p.563ss), condividendo con il lettore una storia personale dolorosa, fatta di aborti spontanei e gravidanze extrauterine ma anche di invasivi e infruttuosi percorsi clinici per stimolare la fecondazione. L’ultimo tentativo prima della definitiva rassegnazione ad accantonare il sogno della genitorialità è stato un percorso di riposo e riscoperta di una dimensione ‘altra’ della vita che potesse restituire al suo corpo le energie necessarie per portare nuova vita. La storia personale viene efficacemente intrecciata con i temi ambientali riconnessi al cambiamento climatico che sono il cuore del volume. L’autrice utilizza l’espressione ‘tempo di maggese’, indicante il riposo delle colture agricole per rigenerare la fecondità della terra. Ebbene, questa immagine assurge a simbolo vero e proprio della critica al paradigma estrattivista che sta portando al collasso l’intero pianeta.  

È evidente che un’opzione di quel tipo sia stata possibile in virtù del particolare tipo di lavoro svolto, ma sarebbe inconcepibile anche solo per un dipendente. L’acquisizione, anche da parte di gran parte dell’opinione pubblica, della logica di ‘un lavoro purchessia’ è probabilmente una delle più eclatanti vittorie del sistema egemone: nel nome dei ‘posti di lavoro’ qualsiasi dimensione ‘altra’ deve essere sacrificata, da qui il più o meno diretto sostegno alle logiche imposte in particolare dalla grande distribuzione organizzata: compressione del costo del lavoro, continua e sempre maggiore dilatazione degli orari di lavoro. Interessante in questo senso l’inchiesta a più voci de la Repubblica ‘La rivoluzione dell’orario continuato’8 in cui, fra l’altro, si parla del testo di Jonathan Crary 24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi): in effetti le logiche da allevamento intensivo con le luci sempre accese per aumentare artificiosamente la produttività non sembrano così distanti da ciò che il capitalismo contemporaneo impone.  

Sarebbe tuttavia un grave errore riferire questo tipo di dinamiche alla sola grande distribuzione o ai lavori più umili e meno qualificati, basti citare la vastissima platea di soggetti subordinati nei fatti ma retribuiti ‘a partita IVA’, dagli studi professionali al mondo del ‘free lance’. La locuzione ‘libera professione’ ha ormai raggiunto tratti orwelliani e, nella sopraccitata inchiesta, si dà conto del fatto che tali categorie subiscano un tempo di lavoro espanso oltre ogni immaginazione. Vi è infatti una dilatazione enorme di tale dimensione senza alcun margine di negoziazione né forze organizzate (sindacali, categoriali…) per tutelare gli anelli deboli di una filiera che si alimenta di illusioni e vecchi fasti. La genitorialità, la conciliazione lavoro-famiglia e il riposo sono visti ormai come ‘lussi’ da sacrificare alla sopravvivenza, eppure gioverebbe ricordare che il ‘riposo settimanale e le ferie annuali retribuite’ non sono solo un diritto di rango costituzionale (art. 36 comma III) ma sono anche indisponibili dall’autonomia privata (il lavoratore «non può rinunziarvi»), così come le condizioni di lavoro dovrebbero «assicurare alla madre e al bambino una speciale protezione» (art. 37). Piccole notazioni che rendono l’idea di quanto la realtà sia lontana da ciò che dovrebbe fondare la nostra convivenza collettiva.  

Al fine di evitare un’analisi superficiale va anche detto che questa vittoria è stata possibile anche, e in particolare, grazie alla disoccupazione strutturale che il ‘modello Euro’ impone9, in ragione della quale, quindi, quando un soggetto resta privo di occupazione è pressoché impossibile il ricollocamento a un livello pari a quello precedentemente goduto. Non si tratta tuttavia di riporre al centro il tema della ‘piena occupazione’, o quantomeno non soltanto, si tratta anche di compiere una valutazione sulla ‘qualità’ del lavoro creato e sulla sua conciliabilità con le altre dimensioni della vita, tra cui il diritto alla maternità/paternità: ricordo che, ad esempio, in più occasioni le associazioni di donatori di sangue ed emoderivati hanno denunciato che la sempre maggiore difficoltà a ottenere i permessi, cui pure i lavoratori hanno diritto per donare e la volontà di evitare ‘frizioni’ con i datori di lavoro, ha ridimensionato quel tipo di volontariato creando non pochi problemi alle strutture ospedaliere e all’approvvigionamento di sangue che, giustamente, nel nostro ordinamento, non può essere compravenduto. Un esempio, quindi, che rende immediatamente intellegibile un problema enormemente più ampio e politicamente cruciale, rispetto al quale si renderà necessario far emergere su quanti più versanti possibile le implicazioni che il modello economico/sociale egemone comporta. A riprova di ciò sottolineo come, nei nostri media, abbia avuto risalto l’esperimento in corso in Svezia concernente la riduzione dell’orario di lavoro, portandolo a 30 ore settimanali. I toni usati dai nostri giornali avevano tratti ‘mitologici’ talmente siamo permeati da questa nefasta idea di accettare qualunque condizione lavorativa; veniva sottolineato il miglioramento dell’efficienza, la riduzione dell’assenteismo, il miglioramento della qualità della vita. Bisognerebbe tuttavia ricordare che la Svezia è un paese fuori dall’euro e, come giustamente, afferma Marco Palombi: «Più che con Spagna e Irlanda, in realtà, sarebbe preferibile comparare la Finlandia con un Paese simile, la Svezia: fino al 2008 le economie delle due nazioni crescono più o meno in modo simile, poi crollano dopo la crisi finanziaria negli Usa e da lì si salutano. Oggi a Stoccolma il Pil è dell’8% superiore a quello del 2008: fa una differenza di 20 punti percentuali coi cugini. La Svezia, però, non ha l’euro: tra il 2008 e il 2009 ha lasciato svalutare la corona di circa il 20% restaurando per questa via la sua competitività»10. Non si tratta di rincorrere inesistenti ‘paradisi in terra’ ma di comprendere con consapevolezza quali siano le leve e le direttrici strategiche sulle quali intervenire nella prospettiva di ricostruire un decalogo di rivendicazioni in grado di aggregare un consenso maggioritario.  

Alberto Leoncini 
(Indipendenza n. 40 – luglio/agosto 2016) 

1. Per comprendere a che soglia di paradossale pervasività ideologica sia giunto il fenomeno, mi piace ricordare che il ‘barometro sulle privatizzazioni’ (Privatization barometer database) sia curato dalla Fondazione Enrico Mattei, intitolata al coraggioso imprenditore che ha sacrificato la propria vita per sviluppare l’ENI nel quadro di una politica industriale pubblica. Un po’ come un istituto per la storia della Resistenza che si occupi di come favorire i movimenti neofascisti. 

2. http://www.nextstoputopia.com, sul tema, di recente Angelo Mastandrea, Lavorare senza padroni, Baldini&Castoldi. 

3. Il testo completo si trova alla voce ‘protocolli d’intesa’ del sito www.tribunale.treviso.giustizia.it, la notizia è stata peraltro ripresa in Il Sole 24 Ore da Barbara Ganz l’11 novembre 2015, Treviso, alleanza per salvare le aziende in crisi

4. Per ricordare ‘quanto sia piccolo il mondo’ rammento che Giovanni Marcora, esponente della sinistra democristiana, fosse legato a Enrico Mattei. 

5. Per un’efficace sintesi Creare lavoro, con le cooperative di Antonio Zanotti in www.sbilanciamoci.info, in particolare: «Con questa legge [Marcora] venne data la possibilità di costruire società finanziarie che avrebbero ricevuto contributi pubblici a fondo perduto per intervenire nel capitale di rischio di nuove cooperative costituite da lavoratori in cassa integrazione o comunque espulsi dal circuito produttivo. A questo scopo le associazioni cooperative ed i sindacati dettero vita ad una sola società, Cfi, che poteva sottoscrivere capitale sociale della nuova cooperativa pari a tre volte il capitale sottoscritto dai soci. Con questa operazione lo Stato sostituiva un costo certo (la cassa integrazione) con una scommessa sui lavoratori, che, se vinta, avrebbe trasformato l’intervento dello Stato in una partecipazione»

6. Così al punto 18: «In particolare, le cooperative di lavoro e le acquisizioni da parte dei lavoratori (workers buy-out) dovrebbero essere sostenute da una linea di bilancio specifica dell’UE, che includa anche gli strumenti finanziari». 

7. Per la vasta congerie di riferimenti teorici e riflessioni vieppiù attuali non si può che rimandare alla lettura di Un pensiero presente, raccolta degli scritti su “Indipendenza” di Massimo Bontempelli, primo titolo della collana editoriale della rivista. In particolare sull’attualità della nozione latina di otium come ‘tempo liberato’. 

8. http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2015/11/25/news/ 24_7_orario_continuato-127974693/ 

9. «Venuta meno la possibilità di svalutare la moneta, i paesi della zona euro che tentano di recuperare competitività sul versante dei costi devono ricorrere alla “svalutazione interna” (contenimento di prezzi e salari). Questa politica presenta però limiti e risvolti negativi, non da ultimo in termini di un aumento della disoccupazione e del disagio sociale e la sua efficacia dipende da molti fattori come il grado di apertura dell’economia, la vivacità della domanda esterna e l’esistenza di politiche e di investimenti che promuovano la competitività non di prezzo». Non sono parole di qualche movimento euroscettico, è il comunicato d’accompagnamento al “Rapporto 2013 su cooperazione e sviluppi sociali in Europa” (datato 21 gennaio 2014) della Commissione Europea, visibile per intero su: http://europa.eu/rapid/press-release_IP-14-43_it.htm 

10. Marco Palombi, Crisi, la Finlandia è malata come la Grecia anche se ha fatto tutte le riforme, in il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2015. L’articolo riprende molti argomenti sul caso finlandese sviluppati da Alberto Bagnai sul blog goofynomics.blogspot.it