La pandemia da CV-19 ha evidenziato che un’infezione ben più grave l’avevamo in casa. Un virus di molti decenni, divenuto più virulento negli ultimi, con cause circostanziabili, dinamiche tracciabili, responsabilità incontrovertibili. Per limitarci alle evidenze ‘di prossimità’: il forte ridimensionamento dell’intervento pubblico nella sanità, la riforma del titolo V della Costituzione e il regionalismo (entrambi ‘derivati’ UE), i vincoli europei monetari e di bilancio. A ciò correlati una impreparazione di fondo (sistema sanitario stremato da decenni di tagli di investimenti, posti letto, personale, reparti e ospedali, assenza di un sistema industriale pubblico di produzione di apparecchiature e di materiale sanitario, privatizzazioni, ecc.), un’illusione di potenza (la Lombardia convinta di essere il non plus ultra), un’improvvisazione strategica (nessun piano epidemico aggiornato), una confusione operativa (regioni vs governo).
All’inizio politici e larga parte dei sanitari (virologi, epidemiologi, medici) hanno sottovalutato il ‘virus’ ma a ben vedere è stata la preoccupazione economica a mettere in campo la strategia della sottovalutazione. Quando poi i primi focolai si sono manifestati in modo virulento proprio nel cuore produttivo del capitalismo italico (aumento esponenziale dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva con sovraccarico ospedaliero e dei morti), si è passati alla sua drammatizzazione seminando il panico, a fronte della consapevolezza dei limiti del servizio sanitario nazionale. Non sapendo che fare la (sola) scelta ‘strategica’ è stata la chiusura ‘in casa’ confidando nell’esaurimento dell’attacco virale, avendo però sempre di vista più di ogni altro il versante degli interessi economici prevalenti, non volendo né fermare la macchina produttiva, né ‘isolarla’ rispetto al resto del paese. Di qui un insieme di misure talune tardive e inefficaci, altre contraddittorie e incomprensibili. Si è comunque proseguito sulla linea precedente: Confindustria subito dopo la ‘chiusura’ (lockdown) del 9 marzo ottiene l’autocertificazione per l’apertura delle fabbriche. Così più della metà delle imprese hanno continuato l’attività produttiva (fonte Istat) e circa metà dei lavoratori dipendenti ha continuato ad andare al lavoro, con buone probabilità di contagiarsi (tra uso dei mezzi di trasporto pubblico e situazioni di assembramento) in una surreale situazione per cui milioni di persone andavano al lavoro in luoghi dove potevano contagiarsi, mentre nel loro tempo libero non potevano uscire di casa.
Ad un bilancio complessivo eclatante è l’inadeguatezza, se non il fallimento, di una classe dirigente, tutta, sia del sistema nordcentrico sia del governo centrale. La politica ha di fatto abdicato, con un presidente del Consiglio e un governo che, investitisi di pieni poteri, non essendo capaci di far altro che inseguire malamente gli eventi, per due mesi, deliberando letteralmente su tutto ciò che si voleva senza rendere conto a nessuno (a tratti nemmeno alla logica), si sono fatti dettare le scelte da ‘esperti’, ‘scienziati’, ‘tecnici’ (comitato tecnico-scientifico, ‘task force’), privi in quanto tali di una visione globale fuori dalla loro competenza settoriale (e peraltro in confusione al loro interno) e da Confindustria. L’estrema debolezza politica del governo si è materializzata nel paternalismo autoritario di Conte, nei suoi fantasmagorici annunci, nei limitati margini di manovra effettivi, una costante condivisa da tempo con tutti gli esecutivi succubi delle direttrici delle istituzioni europee.
La ‘gestione’ dell’emergenza è somigliata così più all’amministrazione dell’epidemia che al suo contrasto. È sempre più evidente lo scarto tra quel poco che il governo riesce a fare e le enormi esigenze che sempre più stanno emergendo, esigenze innanzitutto di soldi (tantissimi) e non tanto per altre pandemie possibili, ma soprattutto per quella economico-sociale in essere. In uno Stato nell’esercizio effettivo e sostanziale della sua sovranità, mai avrebbe potuto manifestarsi una catastrofe di tali dimensioni maturata in pochissimi mesi di chiusura di alcuni comparti, rispetto alla quale ancora manca una visione precisa su come uscirne. Collateralmente a tutto questo un sistema dell’informazione sostanzialmente servile e un mondo intellettuale (particolarmente gli economisti) permeato di neoliberismo e di dogmi senza più alcuna capacità di dialogo effettivo con la società.
La pandemia sanitaria da CV-19 si è così trasformata, in Italia, in una pandemia economica e sociale. Ha scoperchiato tanti problemi che molti non immaginavano, non sapevano o sapevano ma non a questo livello. Nella filiera dei ‘perché’, delle cause, si passa dalle referenze politiche trasversali di ‘casa nostra’ per arrivare alle centrali e alle direttive euro-unioniste.
Resta che in Italia nessuno di quanti fondano il proprio potere (politico o economico) è disposto ai cambiamenti necessari, ma si batteranno affinché non ve ne siano. Il vincolo interno dei ceti dominanti e sub-‘dirigenti’ che è radicato ed attanaglia il Paese, e che ha pesato nelle scelte strategiche del governo, è ben determinato a difendere non solo proprie rendite di posizione e profitti, ma soprattutto il sistema economico in cui questo si forma e prospera, innervato appunto con quello esterno, il combinato UE-euro.
Il che ci porta all’intervento delle istituzioni europee: sospensione (non superamento!) dei vincoli del ‘Patto di stabilità’ (già in Commissione Europea si sta pensando a quando reintrodurli) e una serie di voci finanziarie (Bei, Sure, Recovery Fund / NextGenerationEu) ulteriori anelli delle catene del dopo emergenza sanitaria. Stanziamenti insufficienti (in gran parte finanziati e garantiti dagli stessi Stati membri), in prestito i più, pochi a cosiddetto «fondo perduto», tutti a rate, tutti vincolati alle voci di spesa consentite da Commissione o Consiglio Europeo e alle riforme da effettuare secondo la loro dettatura, pena il blocco a insindacabile giudizio. I fondi comunque non saranno erogati prima della primavera del 2021, sottolineano i rappresentanti europei, e diluiti negli anni con il nuovo bilancio UE per il periodo 2021-2027 di cui aumenterà la quota di partecipazione di tutti gli Stati membri (per l’Italia molte decine di miliardi in più) sia per l’uscita del Regno Unito dall’Unione, sia per l’aumento del bilancio stesso. Alla fine tutta l’enfasi attribuita al Recovery Fund si ridimensiona di molto nella portata quantitativa (per l’Italia, tra prestiti e versamenti per il bilancio rispetto a quanto ritorna indietro) e dal punto di vista politico c’è un evidente giro di vite molto significativo in termini di commissariamento. In relazione a tutto questo, come se non bastasse, già si parla dell’istituzione statale di euro-imposte. Insomma, una partita di giro UE-Stati-UE.
In questo quadro si inscrive l’enfasi sul fondo del MES, per una ragione ‘ideologica’ e pratica allo stesso tempo: il capitale italiano e la Confindustria vogliono arraffare il più possibile –e subito– quanto arriverà. L’intreccio con il modello mercantilista germanico incentrato sull’asse esportazioni/bassi salari ben si concilia con l’analoga declinazione di interessi delle classi politico/economiche al potere in Italia, innervature dei governi regionali incluse, avviata in modo più deciso dal governo Monti in poi. Un indirizzo che è figlio di quel processo di americanizzazione della politica non a caso innescatosi proprio con l’accelerazione dell’ordìto euro-atlantico, all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso. La migliore polizza sulla propria vita (politico/economica) è vista dal blocco dominante dentro e sotto la cupola europea, senza visuale alcuna sulle ripercussioni interne e il futuro della società italiana. I costi, tanto, li pagheranno ‘altri’.
Gli interessi del direttorio UE franco-tedesco non puntano a far crollare la UE e tanto meno l’Italia. Interessa traghettarle fuori dalla crisi, ma badando che l’Italia non rialzi la testa, che continui a galleggiare con l’acqua alla gola nella durevole stagnazione seguita alla recessione del 2008-2009, avallando tale stato con il ritorno quanto prima alle regole di bilancio dei Trattati che mantenga di fatto il commissariamento del Paese.
A Bruxelles e a Francoforte vogliono mantenere il potere di amministrare la stabilità finanziaria e di farla saltare quando un Paese devii o si sottragga alle loro direttive, seminando il panico tra gli investitori e costringendo un qualsiasi governo a tagliare la spesa e alzare le tasse per ripagare un costo del debito sempre più alto. Così funziona l’Unione Europea. I fondi di cui sopra acuiranno la forbice del parametro debito/PIL, irrobustiranno l’esposizione debitoria, rafforzeranno il disciplinamento delle economie dei Paesi sudditi tramite l’austerità, pena l’essere abbandonati alla speculazione finanziaria, mandando alle stelle lo spread. Questo comporta la permanenza nell’Unione Europea. Generare ulteriore debito ‘estero’ per rinsaldare le catene. Una voce, quella più propriamente di ‘debito estero’, che è il pluridecennale strumento principe del sistema di potere atlantico, ed oggi anche carolingio, per scardinare le sovranità nazionali e i diritti sociali dei popoli. Di qui i programmi di aggiustamento strutturale da Fondo Monetario Internazionale, invasivi e devastanti in Africa, in parti dell’Asia, conosciuti con l’espressione “Washington Consensus” in America latina e, nel continente geografico in cui si trova l’Italia, “Unione Europea”.
In Italia la crisi in atto è molto più profonda delle stime via via circolanti peraltro peggiorative. La ripresa del 2021 non sarà in grado di riportare il PIL sui livelli peraltro già critici del 2019. Si parla di anni per un recupero, ma nel 2019 il PIL italiano non aveva ancora recuperato, a dieci anni di distanza, la crisi precedente, proprio a causa delle politiche di inasprimento del controllo di bilancio imposte e delle relative tre recessioni in poco più di 10 anni. Il sistema era insomma in crisi già prima che la pandemia la aggravasse. Ora settori di società sono piegati e a rischio implosione per l’assenza di uno Stato sovrano che cancelli tasse e immetta liquidità a fondo perduto senza alcun tipo di condizionalità, per rispondere ai bisogni sociali e alle necessità nazionali, cose impedite dall’Unione Europea: chi darà risposte, oltre la cassa integrazione (per molti non ancora arrivata), ai lavoratori espulsi dal mondo del lavoro, ai precari, ai ‘rider’, ai lavoratori a tempo determinato, ai braccianti senza diritti e senza dignità? Chi al composito mondo delle partite IVA, agli strati di lavoro dipendente sommerso, sfruttato, sotto-pagato, del commercio, dell’industria culturale, dello spettacolo, del turismo, di buona parte del terziario, della ristorazione e dell’indotto, e via elencando che si vedranno scaricare addosso i costi necessari alla ripartita? I tempi di risalita, dicono, bene che vada andranno calcolati in anni, in un’economia fragile, particolarmente quella meridionale, e con la gigantesca frenata del consumo interno. Una mazzata micidiale. Solo per rimettere in sesto la sanità e la scuola serviranno vagonate di miliardi per anni. Dove si prenderanno questi soldi e come si spenderanno?
Quale ‘linea politica’ d’indirizzo, quindi? Innanzitutto trasformare questa calamità sanitaria in un’opportunità politica per lavorare alla rottura delle catene della gabbia euro-unionista e rivendicare un’altra prospettiva di società! Quindi, non “più mercato, meno Stato”, ma più sanità pubblica, più scuola pubblica, più ricerca pubblica, più regolazione pubblica coerente ed uniforme (altro che autonomia differenziata!), più presenza ‘pubblica’ nell’economia e nelle direttrici politiche in senso lato. Discorsi che possono affondare come il coltello nel burro tra i diversi strati sociali subalterni di questo Paese. Nella consapevolezza da diffondere che al governo –’al potere’– non ci sono ‘i nostri’ e che nemmeno giungeranno ‘da fuori’. Ovvio che sarà necessario passare per la costruzione di un’organizzazione politica (la fase ne produrrà diverse, anche confuse e opportuniste!) con chiarezza di prospettive e realismo progressivo di obiettivi. Saranno i processi sociali a mobilitare porzioni significative di massa. Gli spazi enormi già in essere per il radicarsi di rivendicazioni patriottiche, nazionali di libertà (dal giogo euro-atlantico) e di emancipazione sociale (dal neoliberismo) sono un’opportunità storica, senza precedenti. Lavoriamo politicamente perché non vada sprecata!
Indipendenza
(n. 48 – luglio/agosto 2020)