L’idiosincrasia manifestata nei confronti della questione nazionale da parte di numerosi esponenti delle sinistre occidentali costituisce, a giudizio di chi scrive, una delle cause principali della crisi politica e culturale in cui esse si dibattono ormai da decenni, tra le cui conseguenze più evidenti vi è certamente l’ascesa dei populismi di destra che negli ultimi anni ha caratterizzato il quadro politico di molti paesi europei e financo degli U.S.A.
Tale fenomeno va letto come una conseguenza dell’incapacità delle sinistre occidentali di dare risposte al proprio elettorato tradizionale su diverse tematiche fondamentali, tra cui vanno annoverate senza ombra di dubbio anche quelle inerenti la sovranità e il rapporto tra sfera politica e sfera economica. Come se non bastasse, la grande visibilità mediatica di cui godono le formazioni ascrivibili al populismo di destra fa registrare per reazione a sinistra una chiusura ancora più netta nei confronti di tutta una serie di categorie quali nazione, sovranità, Stato, considerate come intrinsecamente di destra, se non addirittura fasciste.
Quali sono le ragioni storiche, politiche e culturali alla base di una simile involuzione delle sinistre occidentali? E quali potrebbero essere i fondamenti di una concezione della nazione, della sovranità, dello Stato di segno radicalmente opposto a quella del populismo di destra, la quale è spesso assunta acriticamente dalla stessa sinistra, determinando così una reazione di totale rifiuto?
Un buon punto di partenza per rispondere a tali domande è costituito dall’ultimo lavoro di Domenico Losurdo , “Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere” del 2017. L’autore, recentemente scomparso, è stata una figura di assoluto riferimento nell’ambito del marxismo, una tradizione che non ha mai abbandonato pur apportandovi un proprio originale contributo. La radicalità delle sue riflessioni – tese a demistificare stereotipi ormai consolidati nel pensiero comune quali la categoria di totalitarismo, il presunto legame inscindibile e necessario tra capitalismo, liberalismo e democrazia (che farebbe il paio con la presunta incompatibilità tra democrazia e socialismo) o il mito della non-violenza – si è sposata con il più scrupoloso rigore metodologico, grazie al quale il suo lavoro ha potuto ottenere la considerazione che meritava anche in ambito accademico e non solo in quello legato agli ambienti della militanza politica.
Negli anni scorsi sulle pagine di Indipendenza aveva trovato spazio una lunga serie di riflessioni finalizzate a tracciare un bilancio dell’esperienza del comunismo storico novecentesco, grazie al contributo di autori quali Costanzo Preve, Gianfranco La Grassa e Massimo Bontempelli. Un lavoro che si è interrotto per svariate ragioni, ma che intendiamo riprendere dedicando particolare attenzione alla dimensione teorica, tenendo conto delle differenze a volte decisamente rilevanti tra le diverse declinazioni del marxismo, con lo scopo di contribuire nel nostro piccolo a dar vita a un nuovo paradigma teorico funzionale ai problemi e alle sfide del XXI secolo. Non si tratta quindi né di proporsi come obiettivo quello di fondare una nuova “setta” marxista depositaria della giusta interpretazione dei sacri testi di Marx e degli altri “padri fondatori”, né di liquidare sic et simpliciter quell’eredità storica e culturale buttando via il bambino con l’acqua sporca, bensì di superare il marxismo mantenendo gli elementi tutt’ora validi, ripensandone altri e rigettando quelli che si sono dimostrati inequivocabilmente errati. È necessario quindi entrare nel merito in relazione ai principali nodi teorici di quella tradizione politica e culturale e allo stesso tempo chiarire quali riferimenti non marxisti siano da prendere in considerazione per integrare ciò che del marxismo può essere ritenuto ancora oggi valido.
Non deve peraltro stupire che un simile lavoro prenda le mosse dal testo di un autore che si è sempre mantenuto fedele all’ortodossia marxista-leninista. In primo luogo va sottolineato quanto già ricordato sopra e cioè che Losurdo è stato uno dei maggiore intellettuali di quell’area politica, capace di apportare un contributo originale, profondo e autorevole; in secondo luogo non va dimenticato che il concetto di superamento, se hegelianamente inteso, incorpora al suo interno ciò che si intende superare. In altre parole, si può superare il marxismo soltanto a partire dal marxismo stesso. Non va dimenticato, infine, che il punto di vista di Losurdo, pur stimolante e apprezzabile, non coincide in toto con quello di Indipendenza: il suo lavoro può costituire a nostro giudizio un ottimo punto di partenza per un bilancio storico e teorico del marxismo, ma non un punto di arrivo.
All’origine di una dicotomia
Sino ad ora abbiamo utilizzato il termine marxismo al singolare ma sarebbe più corretto parlare di marxismi al plurale. Sono infatti svariate le declinazioni e le correnti che si sono richiamate all’opera di Marx, a partire da presupposti teorici e approcci spesso assai differenti, così come differenti sono state le ricadute pratiche. In tal senso la dicotomia tra marxismo occidentale / marxismo orientale, individuata ed evidenziata dal filosofo francese Maurice Merlau-Ponty nel 1955 e successivamente riproposta dal trotskista Perry Anderson nel 1976, è ripensata da Losurdo in una chiave originale, in primo luogo poiché, a differenza dei due autori citati, non considera il marxismo occidentale come la declinazione più avanzata di quella tradizione di pensiero ma come quella più problematica e per molti aspetti deficitaria. Ma quando può essere rintracciata l’origine di questa dicotomia?
A parere di Losurdo sono due gli eventi che segnano inequivocabilmente una separazione destinata col tempo ad approfondirsi sempre di più: la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione d’Ottobre. Nel Vecchio Continente, centro di un mondo caratterizzato dall’apogeo dell’imperialismo nella sua versione più classica, la Grande Guerra è un evento assolutamente traumatico. La lunga carneficina di milioni tra operai e contadini genera un disgusto e un rifiuto che favoriscono la diffusione del comunismo. In Occidente è quindi il pacifismo a determinare più di ogni altro fattore l’entusiasmo da parte delle masse popolari nei confronti della Rivoluzione d’Ottobre. L’orrore per la guerra contribuisce inoltre a focalizzare gli attacchi nei confronti dell’apparato militare e statale e di conseguenza dello Stato tout-court, identificato con lo sciovinismo e la retorica patriottarda. Per molti marxisti occidentali è dunque lo Stato che «si è rivelato in sé come tipica essenza coercitiva, pagana e satanica»1. La citazione è di Ernst Bloch, ma il filosofo tedesco non è il solo ad emettere giudici così categorici: per il giovane Lukács lo Stato è una «tubercolosi organizzata» che si manifesta «all’esterno come volontà di potenza, di guerra, di conquista, di vendetta»2. Toni e concetti non troppo dissimili sono quelli sposati da altri autori tra cui Walter Benjamin, il quale identifica il militarismo con «l’obbligo del ricorso universale alla violenza quale mezzo per il conseguimento dei fini dello Stato»3.
Di tutt’altro avviso Lenin che, sebbene in “Stato e rivoluzione” affermi che il proletariato vittorioso abbia bisogno unicamente di uno Stato in via di estinzione, ha ben presente l’oppressione politica delle nazioni e la loro gerarchizzazione messa in atto dall’imperialismo. L’obiettivo primario da perseguire deve pertanto essere la liquidazione dell’assoggettamento coloniale, in virtù della quale la parola d’ordine a ispirare la rivoluzione dei popoli coloniali non deve certo essere quella di uno Stato “in via di estinzione”, quanto piuttosto quella di uno Stato in via di formazione4. Non a caso, al di fuori del continente europeo, l’evento fondamentale per la diffusione del marxismo e del comunismo è l’Ottobre russo (e rosso) e non il conflitto mondiale: la Grande Guerra assume una dimensione così traumatica esclusivamente per l’Occidente imperialista, mentre per i popoli colonizzati rimane un fatto lontano e assai meno drammatico della violenza legata alla conquista e all’oppressione coloniale. Losurdo ricorda in tal senso la cifra assolutamente abnorme dei morti della rivolta dei Taiping in Cina, la guerra civile più sanguinosa della storia che, sviluppatasi nel contesto segnato dalle guerre dell’oppio, tra il 1851 e il 1864 provocò tra i 20 e i 30 milioni di morti5. Non deve quindi stupire la considerazione altamente positiva che della Rivoluzione d’Ottobre ha Sun Yat-Sen, il quale, pur non essendo né comunista né marxista, vede in essa una grande speranza per l’umanità ed è inoltre perfettamente consapevole che «le nazioni che si servono dell’imperialismo per conquistare gli altri popoli e cercano in tal modo di mantenere la loro posizione privilegiata di padroni e sovrani del mondo, sono per il cosmopolitismo e vorrebbero che il mondo fosse d’accordo con loro»; pertanto esse fanno di tutto per screditare il patriottismo come «qualcosa di gretto e antiliberale»6.
Alla luce di tutto questo, sottolinea opportunamente Losurdo, la celebre caratterizzazione del Novecento come “secolo breve”, che secondo il “marxista occidentale” Hobsbawm prenderebbe le mosse dal trauma del primo conflitto mondiale, è affetta da eurocentrismo7.
Volendo dunque sintetizzare i contenuti essenziali della nascente dicotomia tra marxismo occidentale e marxismo orientale, per dirla con Losurdo, «se a Ovest il comunismo e il marxismo sono la verità e l’arma finalmente trovate per far terminare la guerra e divellerne le radici, a Est il comunismo e il marxismo-leninismo sono la verità e l’arma ideologica capaci di porre fine alla situazione di oppressione e di disprezzo imposta dal colonialismo e dall’imperialismo»8.
La questione coloniale
Il trauma e l’indignazione suscitati della Prima Guerra Mondiale hanno l’effetto di radicalizzare le posizioni dei comunisti europei: se all’ordine del giorno la priorità assoluta è l’abbattimento dell’ordine sociale ed economico che ha provocato l’immane carneficina, non ci possono più essere obiettivi intermedi; l’unica contraddizione intorno a cui occorre organizzare l’azione politica, di conseguenza, è quella capitalismo/socialismo ovvero borghesia/proletariato. Per quanto legittime, le lotte di liberazione nazionale e le proteste dei popoli colonizzati non hanno in questa prospettiva più alcun senso. Tesi sostenuta, tra gli altri, anche da figure di primo piano del marxismo come Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, secondo i quali non possono più esserci guerre nazionali nell’epoca dell’imperialismo9. Questa visione era peraltro duramente contestata da Lenin, che metteva giustamente in guardia dalla chimerica aspettativa di una rivoluzione “pura”. Anche il grande rivoluzionario russo aveva inizialmente nutrito la speranza di una rivoluzione europea puramente proletaria e socialista di cui la rivoluzione russa avrebbe dovuto costituire il prologo, ma aveva gradualmente preso coscienza del ruolo fondamentale svolto dalle rivoluzioni anti-coloniali e dalle lotte di liberazione nazionale. Aveva inoltre sin dall’inizio colto con lungimiranza la duplice natura del conflitto mondiale: guerra tra schiavisti nel continente europeo e guerra per rastrellare schiavi e carne da cannone nelle loro colonie10.
Il perdurare dell’oppressione nazionale operata anche dagli Stati cosiddetti democratici sia nel cuore dell’Europa sia nelle colonie extra-europee era la dimostrazione dell’importanza enorme rivestita dalla questione nazionale nell’età dell’imperialismo. A conferma di ciò occorre tenere presente che la Rivoluzione d’Ottobre ha luogo proprio in quella Russia definita, all’epoca dello zarismo, «prigione dei popoli» per via dell’oppressione patita da numerose realtà nazionali11. Nei decenni successivi alla fine del primo conflitto mondiale i regimi nazi-fascisti daranno poi tragicamente un saggio di come l’oppressione coloniale potesse diventare una questione riguardante gli stessi popoli europei, indipendentemente dalla loro storia e dal grado di sviluppo economico e culturale raggiunto sino a quel momento. La fine della Seconda Guerra Mondiale e, più in generale, della grande crisi storica della prima metà del Novecento sanciva il fallimento del progetto hitleriano di costruire un impero coloniale tedesco in Europa orientale. Il ciclo rivoluzionario iniziato nell’ottobre del 1917 –sottolinea Losurdo– si concludeva così con due grandi guerre di liberazione nazionale, la grande guerra patriottica condotta dall’Unione Sovietica contro l’invasione nazista e la lotta di liberazione nazionale portata avanti dalla Cina contro l’oppressione giapponese. Erano state in questo modo gettate le basi per una nuova stagione rivoluzionaria all’insegna dell’anti-colonialismo (e del socialismo), che avrebbe caratterizzato la seconda metà del Novecento12.
Emerge quindi con forza come il riconoscimento della questione coloniale costituisca la condizione essenziale per comprendere sia l’importanza della questione nazionale sia le ragioni alla base del successo delle lotte rivoluzionarie che in Russia prima, in Cina e in altri paesi extra-europei poi, porteranno all’affrancamento dall’oppressione coloniale e all’affermazione del socialismo. Lungi dall’essere le rivoluzioni “pure” teorizzate dai marxisti occidentali, si tratta invece in primo luogo di battaglie patriottiche finalizzate al riconoscimento nazionale e, attraverso esso, al socialismo.
Il secondo dopoguerra: Guerra Fredda,
decolonizzazione e Sessantotto
La divaricazione culturale tra marxismo occidentale e marxismo orientale, già delineatasi in maniera piuttosto evidente durante la seconda guerra dei trent’anni (com’è stato definito da alcuni storici il periodo che comprende i due conflitti mondiali), era destinata ad acuirsi ulteriormente nella seconda metà del XX secolo. Diverse sono le ragioni, a partire dal clima culturale della Guerra Fredda che in Occidente favorisce la demonizzazione senza appello di ogni esperienza politica socialista. Un fenomeno, questo, che coinvolge anche il mondo della cultura di sinistra e marxista. Difficile a tale riguardo non pensare al successo della categoria di totalitarismo con la sua duplice mistificazione: da un lato l’equiparazione tra nazismo e comunismo, dall’altra la presunta irriducibile diversità tra questi ultimi e il liberalismo. Tale concezione tralascia in primo luogo la strutturale alterità tra le conquiste del socialismo (pur tra mille contraddizioni ed episodi drammatici e a volte condannabili) e la condotta dei regimi nazi-fascisti; in secondo luogo tace colpevolmente sulle affinità nient’affatto trascurabili tra questi ultimi e le cosiddette democrazie liberali, in merito a questioni quali il colonialismo, il razzismo, lo schiavismo, l’eugenetica. Non deve pertanto stupire che, nel saggio Sulla rivoluzione, sia Hannah Arendt, l’autrice cui si deve il successo della categoria di totalitarismo, a condannare senza appello Marx e a considerarlo uno dei campioni più pericolosi del totalitarismo insieme a Robespierre e a Lenin. In effetti, a partire dalle Origini del totalitarismo e per tutta la sua produzione successiva, Arendt fa astrazione del potere dispotico e tendenzialmente totalitario che colonialismo e imperialismo impongono ai popoli assoggettati e ignora le enormi difficoltà che questi ultimi sperimentano nel loro processo di emancipazione, concentrandosi unicamente sulla presenza o sull’assenza di istituzioni liberali capaci di limitare il potere. La duplice conseguenza di un simile approccio risiede nella svalutazione delle lotte di liberazione anti-coloniale e nella celebrazione a-critica degli Stati Uniti i quali, secondo la filosofa tedesca, non si sarebbero macchiati dei crimini del colonialismo e dell’imperialismo. Arendt ha esercitato ed esercita una notevole influenza nell’ambito del marxismo occidentale e la tesi secondo cui colonialismo e imperialismo sarebbero stati estranei alla storia degli USA è stata in anni più recenti ripresa acriticamente da Negri e Hardt in Impero13.
L’eurocentrismo radicale di cui il marxismo occidentale soffre in modo sempre più evidente nel dopoguerra non è soltanto un prodotto del clima culturale della Guerra Fredda ma si afferma anche grazie ad altri fattori, tra cui la già citata ricerca per una rivoluzione “pura” nella sua contrapposizione tra borghesia e proletariato e la tendenza a mutuare da Marx una delle tesi che la storia aveva già provveduto a smentire insindacabilmente grazie alle rivoluzioni russa e cinese, vale a dire la convinzione che il superamento del capitalismo e l’avvento del socialismo avrebbero dovuto avere necessariamente luogo nei paesi capitalisticamente più sviluppati. Alla base di questa tesi vi è da un lato l’idea secondo cui l’affermazione del socialismo quale transizione verso una società compiutamente comunista costituirebbe la logica e necessaria conseguenza delle contraddizioni del capitalismo. Non stupisce quindi che una parte rilevante del marxismo occidentale sia impegnata nei decenni del dopoguerra in un lavoro teorico focalizzato in maniera pressoché esclusiva intorno alla ricerca del mitico soggetto rivoluzionario (operaismo e post-operaismo). Esulando dalle posizioni di Losurdo, si può affermare che echeggiano in queste tesi le influenze messianiche della filosofia della storia di Marx, sebbene strettamente intrecciate con un approccio dialettico di matrice hegeliana declinato in maniera piuttosto schematica. Va peraltro sottolineato che tale approccio, se depurato dal determinismo legato alla concezione unilineare e progressiva della storia, si rivela per altri versi assai fecondo.
La concezione unilineare e progressiva della storia induce inoltre alcuni marxisti occidentali come Bloch ad assumere acriticamente l’universalismo e l’umanismo astratti, cari al liberalismo, operandone una vera e propria trasfigurazione. La deriva culturale che, partendo da posizioni marxiste ma rimuovendo completamente la questione coloniale, porta di fatto alla celebrazione dell’Occidente liberale e della (presunta) universalità dei valori da esso incarnati, riguarda a vario titolo un gran numero di autori, da Della Volpe a Colletti, da Horkheimer ad Adorno, dall’operaista Tronti ai già citati Hardt e Negri. È una tendenza questa che definisce il marxismo occidentale, il quale non tiene nella dovuta considerazione inoltre uno dei principali vulnus del liberalismo: la dicotomia spesso non esplicitata –ma non per questo meno effettiva– tra la comunità dei liberi (la borghesia proprietaria occidentale), titolare di tutti quei diritti universali e naturali teorizzati, e la massa di übermenschen costituita dai popoli coloniali e dal proletariato occidentale, che ne è invece esclusa. Un’esclusione che, lungi dall’essere il frutto di un’applicazione parziale del liberalismo, è esplicitamente teorizzata dagli stessi esponenti di quel pensiero, oltre a essere strutturale alla società capitalista. Tale duplice rimozione (questione coloniale e delimitazione della comunità dei liberi) riguarda due elementi cruciali per la comprensione sia della questione nazionale che della questione sociale e ci fornisce di conseguenza una spiegazione emblematica del fallimento storico, politico e culturale del marxismo occidentale.
Un’ulteriore spinta all’involuzione culturale del marxismo occidentale arriva infine dall’antistatalismo e dalla polemica contro il potere in quanto tale, due tendenze di chiara derivazione sessantottina. Figura centrale per lo sviluppo delle riflessioni intorno a questi nuclei concettuali è senza dubbio Foucault. La sua analisi della pervasività e dell’onnipresenza del potere non solo nelle istituzioni e nei rapporti sociali ma anche nel dispositivo concettuale, è contrassegnata da un radicalismo il quale, ad un’attenta analisi, si rivela non solo apparente ma si traduce addirittura nel suo contrario. «La condanna di ogni forma di potere, sia nell’ambito della società che nel discorso sulla società, rende assai problematica o impossibile quella “negazione determinata” (bestimmte Negation), quella negazione di un “contenuto determinato” che, hegelianamente, è il presupposto di una reale trasformazione della società, è il presupposto della rivoluzione. Per di più, lo sforzo di individuazione e demistificazione del dominio in tutte le sue forme rivela lacune sorprendenti proprio là dove il dominio si manifesta in tutta la sua brutalità: scarsa o inesistente è l’attenzione rivolta al dominio coloniale»14. Esempi lampanti in tal senso sono le riflessioni di Foucault intorno al razzismo e alla categoria, da lui stesso resa celebre, di biopolitica. Riflessioni in cui brilla per la sua assenza la questione del colonialismo, con tutto ciò che ne consegue sul piano teorico e, di conseguenza, politico15.
Sviluppi attuali
Il 1989 segna l’inizio di una nuova era nelle relazioni internazionali: l’implosione del blocco socialista e della stessa Unione Sovietica pone fine al bipolarismo della Guerra Fredda aprendo la strada ad un unipolarismo a guida statunitense. Il battage retorico con cui quegli eventi sono salutati lascia presagire una nuova era di pace e prosperità, grazie all’affermazione su scala planetaria della democrazia liberale, dell’economia di mercato e delle libertà individuali, concepiti come valori universali e naturali anziché come il frutto di una particolare tradizione di pensiero (liberale) sorta all’interno di una altrettanto particolare area culturale, quella occidentale. I numerosi conflitti che negli anni ’90 vedono il coinvolgimento della nuova super-potenza globale americana e della N.A.T.O. tuttavia certificano palesemente l’impostura della narrazione intorno alla cosiddetta globalizzazione, facendo emergere in tutta la sua tragica e scottante attualità l’importanza della questione nazionale, del neo-colonialismo e di un rinnovato imperialismo sempre più oppressivo. Va infatti tenuto ben presente che un tale attivismo militare da parte dell’Occidente si manifesta ben prima dell’11 settembre e si ispira al progetto di New World Order teorizzato da Bush Sr. sin dal 1991. Un progetto che postula come suo fondamento un radicale mutamento del paradigma delle relazioni internazionali, rigettando esplicitamente i princìpi –tipici del modello westfaliano– di sovranità, non ingerenza negli affari interni e intangibilità territoriale degli Stati nonché il rifiuto della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, uno dei fondamenti (quantomeno sul piano teorico) alla base dell’esistenza della stessa O.N.U. e divenuto a buon diritto parte di una sensibilità diffusa nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Viene ora invece rivendicato il principio secondo cui a essere titolari del diritto internazionale non sono più gli Stati ma gli individui. È così sancito il diritto all’intervento militare contro uno Stato colpevole di violazioni dei diritti umani (vere o presunte) a danno dei propri cittadini. Ritorna in tal modo il principio della “guerra giusta” di derivazione ebraico-cristiana e tipico dell’età medievale, accompagnato però da un’ipocrisia tutta contemporanea che pretende di presentare le guerre di aggressione come “missioni di pace” o “interventi umanitari”. Una guerra che non ha più bisogno di essere la risposta a un’aggressione esterna e nemmeno a un attacco ritenuto imminente, ma può essere giustificata ricorrendo alla categoria di Stato-canaglia (rough State). Si tratta quindi di una guerra totalmente asimmetrica che non riconosce alcun diritto alla controparte e, grazie alla superiorità tecnologica dell’apparato militare atlantico, finisce col provocare perdite immani allo Stato aggredito, uccidendo a migliaia proprio quei cittadini in difesa dei quali si è preteso di intervenire. Infine la ciliegina sulla torta: la prerogativa di intervenire in ogni angolo del pianeta è riservata all’Occidente e alla sua organizzazione militare, la N.A.T.O., cui viene delegata di fatto la funzione di polizia internazionale16.
Lunga è la lista di conflitti asimmetrici che dal 1991 a oggi hanno visto la presenza diretta o indiretta della NATO: le due Guerre del Golfo, le guerre jugoslave, i conflitti in Somalia, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina… È del tutto evidente che, se le guerre degli anni ’90 vanno lette come uno strumento di riaffermazione egemonica degli U.S.A. all’interno del campo occidentale, i conflitti del XXI secolo sono parte di un progetto volto ad accerchiare e a impedire l’ascesa dei due principali antagonisti geopolitici al progetto di mondo unipolare a guida americana: la Russia e la Cina.
Alla luce dello scenario sin qui delineato in estrema sintesi, dovrebbe risultare lampante l’assoluta centralità in questa fase storica dell’anticolonialismo, dell’antimperialismo e della questione nazionale. Ciononostante il marxismo occidentale non solo ha continuato in questi ultimi decenni a rimanere completamente cieco di fronte al problema ma è progressivamente approdato a posizioni di sostanziale collusione con l’imperialismo, quando non di supporto esplicito. Ai fini degli obiettivi di questo articolo è particolarmente interessante analizzare sulla base di quali elementi ideologici sia stato possibile giungere a simili esiti.
A tale proposito occorre sottolineare che la mancanza di considerazione per la questione coloniale porta diversi marxisti occidentali contemporanei a mettere sullo stesso piano e a con-fondere le potenze imperialiste e colonialiste e i paesi del Terzo Mondo (altra categoria rimossa) «che si sono da poco liberati dal dominio coloniale e che ancora, tra tentativi ed errori, cercano di superare l’arretratezza, di conseguire la piena indipendenza anche sul piano economico e di darsi istituzioni politiche adeguate alle loro condizioni economiche e sociali e alla loro situazione geopolitica»17. Emblematico in tal senso è l’esempio di un autore come lo sloveno Slavoj Žižek, il quale, in nome di una presunta radicalità contrassegnata dalla centralità attribuita alla lotta di classe, guarda con ironia alla categoria di antimperialismo che sostituirebbe a suo dire il conflitto tra capitalisti e proletariato con quello tra Stati. In questo modo, venendo meno le categorie di Terzo Mondo, imperialismo e antimperialismo, l’unica distinzione sensata sarebbe quella tra «capitalismo autoritario» e non. Della prima categoria farebbero parte ovviamente tutti quei paesi che a vario titolo tentano di affrancarsi dal dominio occidentale, a partire dalle citate Cina e Russia, per continuare il Vietnam, la stessa Cuba e più in generale gli Stati dell’America Latina, pervasi dal caudillismo e caratterizzati da un “capitalismo populista”. L’antimperialismo si rovescia quindi nel suo contrario, celebrando di fatto la superiorità del modello occidentale (liberale) su quello del Terzo Mondo (autoritario)18. Un ragionamento per molti aspetti analogo spinge altri autori come David Harvey a mettere sullo stesso piano i progetti statunitensi di egemonia globale con gli interessi (anche capitalistici) di quei paesi che a vario titolo, su basi differenti e con esiti diversi, vi si oppongono. I conflitti che caratterizzano l’era post-bipolare sarebbero così da leggere in toto come conflitti inter-imperialistici, poiché a essere imperialista sarebbe di fatto qualsiasi Stato in quanto non socialista. In questo modo la storia finisce con l’essere considerata una ripetizione dell’identico, vale a dire dell’eterna rivalità tra le potenze capitalistiche e imperialistiche. Chi come Harvey sposa queste posizioni dimentica peraltro che Lenin (autore spesso citato a sproposito dai sostenitori di queste tesi) metteva in guardia dal pericolo costituito dall’ignorare l’enorme importanza della questione nazionale al fine di comprendere adeguatamente l’imperialismo19.
Infine non va dimenticato che la tradizione marxista occidentale, storicamente ostile nei confronti del potere statale –quando non del potere in sé–, finisce col considerare in modo tutto sommato benevolo la perdita di sovranità politica ed economica che la stragrande maggioranza dei paesi sperimenta a causa della globalizzazione. Questa è pertanto letta come fenomeno sostanzialmente progressivo e da salutare positivamente in quanto, al netto delle sue criticità, risulterebbe funzionale al definitivo superamento dei vituperati Stati nazionali. Curiosamente è questa una linea che ha caratterizzato molti esponenti di quello che a cavallo del nuovo millennio è stato definito movimento no-global, ma che ha visto molte delle sue anime schierate su posizioni che sarebbe più corretto definire alter-globaliste.
Conclusioni
La divaricazione tra marxismo occidentale e marxismo orientale non è una mera questione ‘geografica’ ma è in primo luogo legata indissolubilmente alla considerazione (o alla mancanza di essa) nei confronti della questione coloniale e, conseguentemente, dell’imperialismo e della questione nazionale. È certamente vero che la trascuratezza nei confronti di questi nodi si manifesta per lo più nell’Occidente economicamente più avanzato, cioè laddove secondo Marx e l’ortodossia marxista si sarebbe dovuto produrre per prima il superamento del capitalismo e l’affermazione del socialismo quale passaggio necessario per l’avvento del comunismo. La storia ha smentito questa previsione e non a caso la Rivoluzione d’Ottobre fu di fatto una rivoluzione contro il Capitale, sebbene Lenin in un primo tempo confidasse che essa potesse costituire il germe di una rivoluzione quantomeno europea e ritenesse che l’esito di quest’ultima fosse determinante per la tenuta della stessa rivoluzione russa. Una conseguenza fondamentale di questa previsione errata è stato il fatto che in Occidente i comunisti non si sono mai dovuti confrontare con l’esercizio del potere e la gestione del governo. Non hanno quindi dovuto confrontarsi con scelte che implicassero compromessi, gradualità, strategie di lungo periodo, arte della diplomazia, considerazione per la geopolitica, sviluppando così in molti casi concezioni di carattere massimalista, idealista e, nella loro radicalità, fondamentalmente astratte. Tuttavia la radicalità dell’astrattismo è una trappola particolarmente insidiosa, non solo perché in antitesi con la concretezza e l’ancoraggio alla realtà tipici del pensiero marxiano ma anche perché pericolosamente affini al radicalismo borghese di matrice liberale. Si può spiegare anche così il fenomeno in virtù del quale spesso e volentieri sinistre più o meno radicali finiscono con l’assumere posizioni fondamentalmente liberiste e imperialiste. Non stupisce affatto pertanto che nella sua ricostruzione della storia del marxismo occidentale Losurdo evidenzi i limiti di quasi tutte le figure intellettuali di maggior rilievo del marxismo europeo, con le uniche eccezioni di Gramsci, Togliatti e del Lukács maturo, quello de L’ontologia dell’essere sociale.
Quali indicazioni si possono dunque trarre da questo breve ed estremamente approssimativo excursus nella storia del marxismo stimolato dall’ultimo lavoro di Losurdo, su cui peraltro è basato?
Una prima considerazione potrebbe essere quella secondo cui l’involuzione politica e culturale sperimentata negli ultimi decenni da parte di tante forze di ispirazione marxista, lungi dall’essere un fatto spiegabile con difficoltà o ricorrendo a categorie come quelle di tradimento e opportunismo, acquisisce invece una logica perfettamente intellegibile ed è l’esito di tare e deficit che hanno origini lontane. Nella prospettiva di un bilancio anche di natura teorica del marxismo sembra quindi lecito affermare che i filoni di quella tradizione politica riconducibili alla sua declinazione “occidentale” si rivelino oggi assolutamente inservibili allo scopo di dar vita ad una nuova alternativa politica e ad un nuovo paradigma teorico capaci di coniugare liberazione nazionale e liberazione sociale. Ciò non vuol dire peraltro che vadano sposati senza riserve approccio e contenuti del cosiddetto marxismo orientale, che poi coincide sostanzialmente con la tradizione marxista-leninista e le sue filiazioni. Difatti, così come non si può spiegare con le categorie di opportunismo e di tradimento l’involuzione delle sinistre occidentali, altrettanto si può dire per la crisi del socialismo reale in atto a partire dagli anni ’70 e la sua implosione del 1989. È però innegabile che quelle esperienze politiche (comprese le poche sopravvivenze attuali) costituiscano, sia pure non da sole, un riferimento imprescindibile da cui partire, dal momento che hanno rappresentato il tentativo più coerente e compiuto di superare l’ordine capitalista e l’imperialismo occidentale. Si rende quindi necessario analizzare esiti ed errori senza preconcetti, tenendo presente che nella storia non si può tornare indietro e nulla si ripete in maniera identica.
Soltanto di punto di partenza, dunque, si può parlare, e per di più verso un lungo cammino il cui punto d’arrivo è ad oggi fuori dalla portata di qualsiasi previsione.
Dario Romeo
(n. 45 – novembre/dicembre 2018)
- E. Bloch, Spirito dell’utopia, tr. it. di F. Coppellotti, La Nuova Italia, Firenze 1992 [1923], p. 315, cit. in D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017, p. 9.
- M. Löwy, Redenzione utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Bollati Boringhieri, Torino 1992 [1988], p. 157, cit. in D. Losurdo, op. cit., p. 9.
- D. Losurdo, op. cit., p. 9.
- Ivi, p. 10.
- M. Davis, Olocausti tardovittoriani, tr. it. di G. Carlotti, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 2 e 16, cit. in D. Losurdo, op. cit., p. 6.
- Sun Yat-Sen, The three principles of the people, trad. dal mandarino di F.W. Price, Soul Care Publishing, Vancouver 2011, pp. 43-44, cit. in D. Losurdo, op. cit., p. 10.
- D. Losurdo, op. cit., p. 7.
- Ivi, p. 12.
- Ivi, pp. 34-36.
- Ivi, pp. 35 e 52.
- Ivi, pp. 37-38.
- Ivi, pp.43-44.
- Ivi, pp. 119-123.
- Ivi, p. 124.
- Ivi, pp. 125-137.
- Su questi temi si veda tra gli altri D. Zolo, Terrorismo globale. Dalla Guerra del Golfo alla strage di Gaza, Diabasis, Reggio Emilia 2009.
- D. Losurdo, op.cit., p. 148.
- Ibidem.
- Ivi, pp. 153-155.