Massimo Bontempelli, Fabio Bentivoglio
“Capitalismo globalizzato e Scuola”
Indipendenza, 2016
Denso e attuale. “Capitalismo globalizzato e scuola. Per un’idea regolativa di scuola pubblica nazionale” è un testo denso già nel titolo e perché, in un numero contenuto di pagine, illustra i nessi ed i passaggi fondamentali che, nell’inedito contesto storico di fase dominante, sovrintendono alla necessità sistemica di asservire e sussumere progressivamente il sistema scolastico, smantellandone la funzione culturale, educativa, di cittadinanza che gli dovrebbe essere proprio.
Allo stesso tempo è un testo attuale, pur essendo stato scritto oltre un decennio fa. Lo è non perché ciò che vi è contenuto in termini di impianto culturale e di proposte di merito sia oggi immediatamente attuabile, giacché è del tutto evidente che lo scenario odierno non rende assolutamente possibile alcunché di sensato e di non subalterno alle dinamiche produttivistiche e mercatiste. Lo è perché con quell’impianto e quelle proposte, terreno di confronto per una riforma della scuola che tenga conto delle istanze formative delle giovani generazioni del nostro tempo, lascia aperto un orizzonte di senso possibile. E lo è, quindi, perché a ben vedere rimanda implicitamente ad una condizione preliminare che si caratterizzi per un orizzonte politico e valoriale antitetico al dominio vigente anche in questo Paese.
La sostituzione della scuola nell’accezione moderna del termine, nata per formare l’uomo e il cittadino, con una non-scuola funzionale a interessi localistici e di mercato è un fatto verificabile da chiunque abbia a cuore il futuro dei giovani. Allo stato delle cose la frammentazione continua delle ore di lezione, delle classi, delle cattedre, la pratica onnicomprensiva dei test, le continue incursioni nella scuola di soggetti esterni mossi da finalità propagandistiche, il localismo miope, la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” (e fermiamoci qui perché l’elenco sarebbe troppo lungo) hanno minato alla base la possibilità stessa di formare un autentico pensiero critico: questo esige contenuti culturali, tempi di riflessione e di assimilazione e modalità di trasmissione del sapere non compatibili con l’imperante logica aziendale. Che poi esistano ancora eroici docenti che tentino l’impresa, è altra questione.
Se confrontiamo la scuola del 1970 con la scuola attuale, verrebbe da giudicarle caratterizzate da difetti opposti: tanto la prima era selettiva, tanto quella di oggi manda avanti tutti; tanto quella di allora lasciava fuori dai suoi tetri portoni tutto ciò che viveva nella società, tanto quella di oggi è aperta ad ogni moda del tempo. Era, quella italiana, una scuola corrosa da gravi difetti: una selettività operante di fatto rispetto alle provenienze sociali e culturali degli allievi piuttosto che alle loro capacità di apprendimento; una rigidità dei programmi di insegnamento riferita ai contenuti nozionistici invece che agli obiettivi culturali; una chiusura asfissiante a qualsiasi sollecitazione della società circostante; una non dichiarata ma effettiva sottovalutazione a tutti i livelli dell’importanza del sapere scientifico (con una mentalità per cui sarebbe stato ritenuto culturalmente inammissibile non conoscere niente di Pascoli o di D’Annunzio, non altrettanto, invece, il non conoscere niente di Mach e di Bohr); un insegnamento umanistico che ne meccanizzava ed isteriliva i contenuti (se c’è un fatto che condanna il liceo tradizionale è l’incapacità generalizzata di coloro che ne uscivano di leggere agevolmente un testo latino o greco dopo aver studiato quotidianamente per anni le relative lingue); una disciplina dei comportamenti tale da creare l’associazione psicologica tra studio e pena (che cominciava, però, ad essere travolta dalla ribellione studentesca del 1968).
La scuola cosiddetta tradizionale (termine che manca di rigore definitorio e che copre situazioni storicamente differenziate), per quanti aspetti negativi avesse, era pur sempre una scuola: il lettore che ha memoria di quella scuola frequentata da studente o che l’ha vissuta professionalmente come insegnante, ricorderà, insieme a tante frustrazioni, che al suo interno nessuno, che fosse sano di mente, avrebbe osato immaginare o sostenere che la scuola dovesse essere un’azienda, il suo insegnamento una merce, i suoi contenuti disciplinari variabili ad arbitrio, i suoi istituti in reciproca competizione per accaparrarsi allievi intesi come clienti. Questo non accadeva non per difetto di immaginazione, ma perché la società in cui la scuola si collocava era radicalmente diversa da quella attuale, e la società era diversa perché connessa ad una fase capitalistica diversa. Trentacinque anni fa, volendo prender le mosse da quegli anni, non si sarebbero potute concepire scuole aziendalmente concorrenziali tra loro, perché non si sarebbero potute concepire neanche brevettazioni di prodotti biologici, compravendita di parti del corpo umano (il cui giro di affari, nel più ampio mercato del traffico di esseri umani, ricordiamolo, è oggi superiore a quello delle armi e della droga), né corpi femminili volgarmente associati a merci da vendere anche come illusioni, né si sarebbero potute concepire lunghe sequenze pubblicitarie che interrompono in modo ossessivo i programmi televisivi, compresi i film d’azione, i thriller e persino opere di particolare valore estetico e culturale, né notizie televisive come fonti esclusive di informazione politica e sociale.
Questo modo di vivere la realtà sociale così diverso da quello odierno dipendeva essenzialmente da una fase capitalistica in cui l’azienda, cellula della logica capitalistica del profitto, organizzava sì la produzione economica della società, riducendo la forza-lavoro a merce e orientando lo sviluppo sociale in funzione dei suoi interessi, ma senza bisogno di imporre il suo principio organizzativo a tutte le sfere della società. Il capitalismo di quegli anni era “regolamentato”, cioè regolato da norme che delimitavano l’ambito in cui esso poteva operare. Poiché queste regole discendevano dalla sovranità dello Stato, il capitalismo regolamentato di quella fase non aboliva l’autonomia delle istituzioni statali e in genere pubbliche, la cui organizzazione e il cui funzionamento rispondevano a princìpi diversi dal profitto economico. Ciò non significa che il capitalismo di quell’epoca fosse sottomesso allo Stato, ma piuttosto che esso accettava di operare all’interno di un quadro normativo statuale per la ragione storica che quel quadro normativo era nato per proteggerlo da una ripetizione devastante delle crisi e per favorirne lo sviluppo. La crisi del 1929, ad esempio, aveva reso necessaria l’introduzione di regole che vietassero al capitale finanziario la stessa libertà di movimento del capitale industriale, o che vietassero il controllo azionario delle industrie da parte delle banche commerciali. Lo Stato, inoltre, aveva la funzione di favorire lo sviluppo della produzione capitalistica garantendo ai lavoratori una quota di cosiddetto “salario indiretto”, cioè un insieme di prestazioni assistenziali gratuite, dalla sanità all’istruzione, tali da consentire che il salario diretto alimentasse l’acquisto di beni durevoli di consumo prodotti dall’industria; analogo il discorso per i redditi dei ceti medi, allargati dalla spesa statale. Il risultato, in ogni caso, era l’accettazione generale del carattere non aziendale delle istituzioni pubbliche.
Tra la scuola di oggi e quella che con termine vago e impreciso è solitamente indicata come scuola tradizionale, si potrebbe dire che, se quella tradizionale era una scuola con gravi difetti, quella di oggi è un insieme di gravi difetti senza scuola. L’esperienza della scuola, nell’accezione moderna del termine, in Italia come in altri paesi, si è conclusa nel volger di pochi anni. Certo continuano ad esistere dappertutto edifici in cui si tengono lezioni, riunioni didattiche, scrutini ed esami, e in cui complessivamente centinaia di migliaia di lavoratori sono retribuiti per insegnare qualcosa a milioni di individui dall’infanzia all’adolescenza. Ma se per scuola si intende l’istituzione deputata a trasmettere da una generazione all’altra saperi, valori e memoria di una società, per i quali quella società esprime una forma di civiltà, allora, come è argomentato in questo lavoro, in Italia, e non solo, una scuola non c’è più. Ciò non significa che non esisterà più una scuola degna di questo nome: la sua rigenerazione dovrà passare però da un impegno consapevole, insieme sindacale, politico e culturale, delle forze operanti al suo interno. Il libro è costruito per dare una risposta ad una domanda cruciale: che cosa è successo negli ultimi trent’anni di così dirompente da arrivare a snaturare la scuola, facendole perdere l’essenziale funzione di trasmettere alle nuove generazioni i saperi e i valori di una comunità nazionale, al punto di poter parlare, ad esempio, di azienda-scuola o di azienda-ospedale come se si trattasse di ovvietà?
Gli autori sono convinti e ritengono di dimostrare nel saggio che, all’origine di questo come di altri snaturamenti delle istituzioni sociali, ci sia quel grande fenomeno storico che va sotto il nome di globalizzazione.
All’analisi di tale fenomeno è dedicata la Prima parte del libro, non però per disegnarne aspetti e caratteristiche strutturali –dato che già esistono numerosi testi che chiariscono esaurientemente l’argomento– ma per ricostruirne la genesi, quindi quegli eventi politici, economici e finanziari che hanno rappresentato le tappe fondamentali del percorso che è approdato all’attuale globalizzazione, identificando anche i personaggi, i luoghi, le date e le dinamiche che hanno scandito questo percorso.
L’analisi delle vicende politiche, economiche e finanziarie, poi sfociate nella globalizzazione, è condotta non perdendo di vista la stretta relazione esistente tra i mutamenti che si sono determinati in questo specifico settore della società, con gli effetti prodotti negli altri ambiti della vita sociale: sono così delineati nel loro sorgere i nuovi profili professionali e i nuovi modelli umani più funzionali alle esigenze dell’economia deregolamentata. E sono inoltre definite in forma rigorosa, cioè storicamente fondata, le parole strategiche del nostro tempo (liberismo, liberalismo, neoliberismo, globalizzazione, tecnica) oggi usate per lo più con significati approssimativi, contraddittori, tali da generare grande confusione.
Si arriva così alla Seconda parte che riguarda direttamente la scuola. Quello stesso arco temporale e quello stesso itinerario tracciato nella Prima parte è ripercorso prendendo la scuola come punto di riferimento, individuando i momenti salienti della sua evoluzione interna fino alla radicale trasformazione in azienda-scuola. Un percorso reso comprensibile nelle sue dinamiche di fondo, proprio perché osservato alla luce del più ampio quadro storico precedentemente delineato.
Nell’ultima Sezione sono prese in esame le parole-chiave della scuola dell’autonomia entrate nel linguaggio comune degli insegnanti. Attraverso un esame condotto con la lente d’ingrandimento, emerge con chiarezza la connessione tra le nuove modalità di insegnamento e trasmissione delle conoscenze e le istanze dell’economia deregolamentata del nostro tempo.
La “Proposta quadro di riforma della scuola”, riportata in Appendice, offre contenuti e spunti critici inediti rispetto al consueto dibattito sul tema delle riforme scolastiche.
Un testo, insomma, nel suo ambito di pertinenza, che irrobustisce fortemente la configurazione di una prospettiva che abbia come asse politico la rivendicazione della sovranità e dell’indipendenza, condizioni per un cambiamento effettivo di assetti di società di cui ogni specifico sistema scolastico è anima propulsiva. Un lascito prezioso, questo testo, che “Indipendenza” intende valorizzare con la sua azione culturale e politica.
Eratostene
(Indipendenza n. 40 – luglio/agosto 2016)
https://associazioneindipendenza.wordpress.com/i-libri-di-indipendenza/