Il terremoto elettorale nazionale del 4 marzo scorso ha non solo ribadito il significato politico del voto referendario del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale, ma ne ha anche chiarito ed amplificato la portata, acuendo la crisi sia del Partito Democratico sia di Forza Italia, per diversi decenni sul proscenio della politica. Il voto del 4 marzo ha bocciato l’egemonia di quel blocco trasversale neoliberista, ancora propugnatore –d’intesa con consorterie mediatiche, accademiche, economiche– della Grande Narrazione sull’austerità espansiva, del Fiscal Compact, del pareggio di bilancio, in ossequio ai vincoli esterni (alienanti certe funzioni e sovranità agli organismi europei) e ai dettami di Bruxelles e Francoforte, ovviamente applicati in modo ineguale sul continente. Un’austerità inasprita nonostante l’aggravarsi della crisi, nella sostanziale indifferenza alla sua insostenibilità economica, sociale e democratica. Questo blocco, già in alternanza e anche assieme al governo, è stato bocciato ma non ancora definitivamente spazzato via; mira anzi a tornare al governo e a riproporsi in rappresentanza di quel combinato di interessi –sia esteri, sia interni– di settori d’impresa, affaristici e speculativi che da dette politiche predatorie e depressive intendono continuare a trarre vantaggio.
Il governo che ne è scaturito vede tre ‘anime’. Due, il Movimento 5 Stelle (M5S) e la Lega, composite al loro interno, diverse per base sociale (classi subalterne e ceti medi impoveriti, nel sud e centro Italia per il 5S; piccoli e medi imprenditori colpiti dalla globalizzazione e sostegno importante di strati superiori di forza lavoro, nel nord, per la Lega), con componenti interne eurocritiche, un impianto di matrice neoliberista più marcato nella Lega che nel M5S, con una maggiore vocazione sociale per il M5S (es. Decreto Dignità) e, per la Lega, una politica fiscale su misura dei settori che costituiscono la sua base elettorale. Sulla questione dirimente dell’Unione Europea hanno posizioni moderatamente critiche e ritengono di poter portare cambiamenti decisivi nel quadro delle regole e delle imposizioni date. Esistono linee ed interessi diversi, a volte confliggenti e solo il tempo, se dureranno al governo, potrà dire quali prevarranno. Intanto questo blocco di forze sta traendo consenso da pulsioni disordinate, forme di ribellismo disorientato, in sostanziale assenza di un progetto di società.
La terza ‘anima’ è costituita da figure presuntivamente ‘tecniche’ (Moavero e Tria in primis) del ‘vecchio’ blocco di potere interno/estero, a sancire un controllo dall’interno sull’operato del governo, con una sponda non secondaria nel presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, già impostosi come garante della stabilità vincolistica della UE, delle oligarchie europee, delle classi dirigenti statuali a Berlino e Washington e degli interessi della finanza predatrice sovranazionale (banche, fondi, agenzie di rating, ecc.), i cosiddetti “mercati”, il tutto mal celato come tutela del “risparmio degli italiani”, falcidiato in realtà dal non riformabile sistema euroatlantico.
Uno spartiacque, dunque, quel 4 marzo? Un’effettiva svolta? Finora più nella portata d’insieme della domanda che nella effettività delle risposte.
Almeno due grandi richieste: fine delle politiche austeritarie ed interventi protezionistici diffusi dello Stato. Da un parte, per larghi strati popolari, lavoro, dignità, stato e sicurezza sociali, dall’altra per i settori produttivi (piccole/medie imprese, partite IVA, ecc.) misure protettive a fronte della circolazione sregolata di merci e capitali, cioè dei meccanismi della globalizzazione di cui la UE è espressione con i suoi luoghi decisionali lontani ed opachi, corresponsabili di tanti guasti. Questa domanda si è indirizzata verso la migliore –ci si passi il termine– offerta politica disponibile di cambiamento incentrata su specifici punti programmatici (abolizione del Jobs Act, contrasto alla precarizzazione del lavoro, reddito di cittadinanza, salario minimo legale, abolizione della Fornero, pensioni minime rialzate, revisione della “buona scuola” di Renzi, piano di investimenti pubblici, banca nazionale a sostegno, ecc.) tutti incompatibili con i vincoli di bilancio posti dalle regole UE, altri a nostro avviso discutibili (flax tax) ma rispondenti ad un bisogno di adeguamento fiscale al ribasso per micro-imprese e partita IVA (il grande capitale la flat tax se la procura in altri modi) a fronte di richieste finora superiori alla realtà produttiva delle stesse e dopo tanti anni di falcidianti politiche austeritarie, altri inaccettabili (Decreto Sicurezza, ad es.) per l’impianto repressivo su lotte sociali e, su un pur oggettivo problema, flussi immigratori.
Le risposte, sinora, dal governo? Parziali, modeste, contraddittorie. Il “decreto dignità” contro precarizzazione del lavoro, delocalizzazioni e gioco d’azzardo appare un atto rivoluzionario dopo decenni di furore ideologico neoliberista e di sudditanza ai dettami mercatistico/finanziari euroatlantici. Ma è solo un timido cenno di inversione di marcia. Di certo non smantella il Jobs Act e non c’è un’inversione di tendenza rispetto al sistema di precarietà e cancellazione dei diritti fondamentali delle condizioni di vita e di lavoro da svariati decenni a questa parte. Anche gli articoli anti-delocalizzazioni non confliggono con la legislazione comunitaria e con i suoi assunti su circolazione di capitali e diritto di stabilimento senza vincolo alcuno.
Il Documento di Economia e Finanza (DEF), annunciato come discontinuo con il passato, purtuttavia da questo fortemente condizionato, resta nel perimetro strettissimo dell’insufficienza degli investimenti (discutibile destinazione a parte) per almeno il solo avvio di una ripresa economica. Il tutto è infatti condizionato al ribasso dal combinato d’intesa del variegato blocco sconfitto di cui sopra e dei poteri forti di Bruxelles (Commissione Europea, CE) e Francoforte (Banca Centrale Europea, BCE). Questi, al momento in cui scriviamo, puntano al ribasso nello sforamento del deficit per rendere insignificante la manovra attaccandosi ai “decimali” (ogni decimale in meno significa ancora più austerità), mirando a limitare il più possibile l’intervento pubblico, logorandolo fino alla marcescenza negli stretti margini operativi imposti dalla gabbia europea e preparando il terreno per misure dure sul fisco, per ulteriori tagli a sanità e istruzione pubblica, per quanto rimane da privatizzare, tanto più che a gennaio cesserà il Quantitative Easing e l’esposizione a che lo spread si alzi, con ripercussioni sulla spesa per interessi, sarà maggiore.
La manovra finanziaria del governo è infatti già parziale, insufficiente, fragile, priva di soluzioni strutturali, pur se sempre utile a una fetta di cittadini in estrema difficoltà. Il reddito di cittadinanza, nelle dimensioni già al ribasso ventilate, crea un’assistenza a tempo senza risolvere il problema della disoccupazione strutturale e la flat tax non avrà una ricaduta significativa sulla crescita. L’attuazione dei provvedimenti “popolari” si proietta così sul lungo termine e si pensa di guadagnare tempo intanto perdendo meno credibilità e consenso possibile, senza che s’intraveda una qualche visione di prospettiva. Nonostante i proclami e i toni a volte rissosi, questo Governo ha scelto sin dall’inizio la ricerca di una compatibilità con il paradigma rappresentato dai vincoli europei, incompatibili però con una prospettiva di società migliore, mettendo in disparte qualsiasi ipotesi di ‘piano B’ ed indebolendo la loro stessa linea.
Il che rende più baldanzose quelle forze politico-economiche interne ed europee (CE e BCE) cui si sono associate in scia altre forze politiche già contro il governo gialloverde prima che nascesse. Non ha precedenti una tanto compatta ostilità dell’intero blocco dominante interno (Quirinale, Banca d’Italia, presidenza Inps, non pochi funzionari dei ministeri, i media, Confindustria, certa magistratura, ecc.) oltre che internazionale. Qualcosa di analogo non accadde nemmeno ai tempi del primo semestre del governo Tsipras, che pure restava culturalmente subalterno al mito europeista, sebbene sulla carta il programma di Salonicco fosse ben più radicale del “contratto” di governo tra M5S e Lega.
Da tale macroscopica evidenza è bene non prescindere. Chi lo facesse, al di là della condivisibilità delle critiche di merito, evidenzierebbe che la gabbia della UE va più che bene. Alle “ambiguità” ed anche inaccettabilità di taluni provvedimenti di questo governo resta la diversità rispetto all’inequivocabile e assoluta sudditanza dei governi precedenti.
Sono due le prospettive allo stato: la prima europeista, nella duplice alterità interna della confederazione a trazione tedesca (l’attuale UE) o degli Stati Uniti d’Europa (prospettiva atlantica all’Altiero Spinelli) a dominanza USA, e l’altra nazionale/patriottica, a rimettere al centro la sovranità piena degli Stati nazionali. Per il governo Conte, delle due l’una, quindi: o rimangiarsi le promesse elettorali, rispettare i vincoli europei, ed allora rimarrà l’austerità e prevarrà una “normalizzazione alla greca”, oppure violare le regole UE, rescindere i vincoli ed allora riconquistare una possibilità di liberazione che non potrà che trascendere Lega e M5S. Nell’affrancamento dalla gabbia UE-euro e per un’alternativa di società è doverosa la critica a questo governo ma ponendosi, coerentemente, nel campo politico del ritorno dell’Italia alla piena sovranità e indipendenza, di una ritrovata capacità d’intervento dello Stato anche nella regolazione dei rapporti economici, (re)introducendo discipline stataliste e socialiste. Unitamente ad ‘altro’, tutto ciò che contribuisca ad acuire insofferenze e frizioni con le istituzioni europee, tutto ciò che possa concorrere a fungere da lievito per passi in avanti futuri e necessari di emancipazione, in vista di una rottura della gabbia UE-euro, è da salutare positivamente, mantenendo sempre un approccio critico costruttivo. Di questi tempi non è poco.
Indipendenza
(n. 45 – novembre/dicembre 2018)