Antonio Gramsci analizzava con estrema lucidità la situazione italiana dei primi due-tre decenni del Novecento. Individuava, con incredibile precisione, i termini della questione meridionale nella divisione tra città e campagna –divisione tipica dei paesi in cui lo sviluppo capitalistico era ancora arretrato– e nel ruolo della borghesia settentrionale che soggiogava tanto gli operai del nord, nelle modalità tipiche della lotta di classe, per così dire, “tradizionale” (riduzione dei salari, aumento dell’orario di lavoro, ecc.) che un Meridione all’epoca ancora integralmente agricolo.
Inseriva, inoltre, questi termini nel quadro della più generale questione nazionale: vedeva il successo della rivolta degli operai delle fabbriche del Nord come indispensabile all’emancipazione delle masse rurali del Sud e, viceversa, l’alleanza del proletariato industriale con i braccianti meridionali come necessaria per il trionfo del socialismo in Italia.
Ad oggi, questi termini sono (quasi) del tutto mutati. Il Sud si è deruralizzato, non per effetto di un’industrializzazione massiccia, ma in conseguenza dell’evoluzione tecnologica e del mutamento dell’assetto capitalistico globale. A questa deruralizzazione non è però seguita l’uscita del Meridione dalla sua arretratezza economica, anzi, essa per molti versi si è accentuata diventando cronica.
Evidentemente le sorti del Sud Italia non sono più legate a quelle della sua campagna e dei suoi braccianti, i quali non sono che, se non un ricordo, una piccola nicchia. L’agricoltura, nella società odierna, è quasi completamente meccanizzata e assorbe solo una minima parte di manodopera. E questo è un mutamento ormai consolidato della società italiana –e più in generale occidentale– acquisito da diversi decenni. Ma nemmeno gli operai del nord costituiscono ancora una forza compatta e omogenea (e questo è un fatto più recente) e si può dire che non esista più un proletariato nei paesi capitalisticamente più avanzati. La dissoluzione dell’industria fordista ha cancellato per sempre le condizioni che garantivano l’omogeneità sociologica, politica e ideologica della classe operaia. In una condizione globale in cui il capitale si deterritorializza e la fabbrica, almeno nelle sue connotazioni novecentesche, smette di essere il centro dell’attività economica, diventa sempre più complicato parlare di operai come classe sociologica; figurarsi politica o ideologica! Anche la borghesia predatrice settentrionale scompare, sostituita da una élite finanziaria transnazionale non più localizzata. Gli “eredi” di quella vecchia borghesia o salgono al livello di questa élite, perdendo il loro carattere regionale e nazionale, oppure si “proletarizzano”, trincerandosi nelle roccaforti diroccate della piccola proprietà privata in crisi, espropriata dal capitale finanziario e incapace di reggere la concorrenza delle aziende multinazionali.
Mutati radicalmente soggetti e scenari, sarebbe assurdo riproporre la questione meridionale nel vecchio senso gramsciano. Altrettanto assurdo sarebbe presentarla esclusivamente come un rapporto di tipo predatorio tra Nord e Sud, come un certo revival meridionalista tende a fare.
L’unificazione italiana è avvenuta per via annessionistica, attraverso l’iniziativa politica della burocrazia piemontese, che ha trattato il Mezzogiorno come una colonia. Il processo di predazione e spoliazione del Sud ha posto le fondamenta per una frattura dell’Italia non ancora rimarginata. Ma non si possono certo attribuire tutte quante le responsabilità del ritardo del Sud ai pur colpevoli Savoia. La deruralizzazione del Sud non è stata accompagnata da una sua armonizzazione con il resto della Penisola. Questa mancanza va imputata in particolare alla classe politica della Prima Repubblica. Lo sviluppo economico italiano cominciato negli anni Sessanta non è stato canalizzato nella direzione del miglioramento dell’apparato produttivo e delle infrastrutture del Meridione e del superamento del rapporto di subalternità rispetto al Settentrione. Il capitalismo “di stato” della Prima Repubblica ha permesso uno sviluppo economico e industriale delle regioni del Nord che ha consentito a queste di eguagliare le principali potenze europee; nello stesso tempo, però, permanevano gravi carenze sistemiche nel Sud e nelle Isole che ne hanno bloccato le potenzialità. Anziché convogliare la spesa pubblica nel miglioramento della rete infrastrutturale si è preferita una gestione gattopardesca per creare meccanismi di clientele attraverso una crescita spesso abnorme dell’amministrazione pubblica e della burocrazia locale, cui faceva riscontro un’inadeguatezza del tessuto produttivo. Questo squilibrio ha creato una forte emigrazione verso nord che non si è mai arrestata e che, negli ultimi anni, si sta riproponendo con un’intensità che sembrava non più ripetibile.
Non si è trattato di una crescita fuori misura della spesa dello Stato che, nell’immaginario liberista, imbriglierebbe l’iniziativa privata, ma del suo cattivo indirizzo dovuto a scelte politiche fallimentari. Tuttavia ha fatto proseliti la narrazione che vedrebbe un Sud parassitario “pesare” sulle produttive regioni settentrionali. Una simile narrazione ha contribuito a creare le condizioni per l’affermazione non solo della Lega Nord, ma del processo di disgregazione dello Stato italiano per via federalista.
Nel mentre lo Stato veniva disgregato dall’interno dalla propria classe politica e da una certa campagna mediatica, veniva aggredito dall’esterno da organizzazioni giuridico-economiche sovranazionali (Unione Europea in primis) e dalla finanza globale. Sia la retorica sudista che quella nordista sono, in questo senso, complementari (seppure chi scrive si sente più vicino alla prima, almeno storicamente un po’ più accurata) ma entrambe sono vittime della loro monomania che impedisce loro di afferrare i più recenti mutamenti mondiali, i quali impongono un ripensamento, sotto nuovi termini, della questione.
Tanto la borghesia predatrice settentrionale di gramsciana memoria, quanto la classe politica savoiarda, sono soggetti ormai scomparsi. La piccola e media proprietà privata si trova minacciata nella sua stessa esistenza dal capitale transnazionale, e il Nord è diventato il Sud di qualcun altro: dell’industria e della finanza tedesca, dell’Unione Europea, dei vari trattati transatlantici per il “libero scambio”. Comprendere questo archivierebbe nella soffitta del ridicolo tutte le panacee autonomiste e regionaliste. È in questo che la lezione di Gramsci risulta più che mai attuale: è solo attraverso una nuova riunificazione nazionale che l’Italia può uscire dalla sua crisi, non certo accelerando una disgregazione che le spinte del capitalismo globalizzato hanno già messo in atto. L’autonomismo acuisce la frattura tra Nord e Sud e priva entrambi dell’unico strumento in grado di sanarla: lo Stato. Nel mondo globalizzato, e la storia degli ultimi anni lo sta dimostrando, non c’è spazio per le piccole imprese del centro-nord, che potevano esistere e prosperare soltanto entro una cornice composta da sovvenzioni, regolamentazione e limitazione dei mercati, capitalismo di Stato e commesse pubbliche. Senza un forte apparato statale la gloriosa piccola impresa privata italiana è destinata al tramonto. Nel contempo emerge come il problema occupazionale non interessi più soltanto il Meridione, seppure in questo si fa sentire con maggiore intensità, ma tutta la Penisola, e l’emigrazione verso il nord si sta rapidamente trasformando in emigrazione verso l’estero, problema che non riguardava l’Italia da svariati decenni. Le aziende multinazionali che stanno soppiantando il capitalismo italiano con una velocità impressionante richiedono licenziamenti facili, contratti precari e tutele minime o inesistenti per i lavoratori.
La questione meridionale, dicevamo, come ai tempi di Gramsci seppure sotto una veste inedita, si salda con la questione nazionale. Emerge la necessità di costituire una nuova classe politica nazionale capace di connettere le diverse anime e trovare una sintesi tra tutte le contraddizioni. Fondamentale sarà il ruolo dello Stato. L’ingenza degli investimenti richiesti da un simile progetto e il periodo di tempo necessario alla sua attuazione esclude il capitale privato che invece esige riduzione dei costi e profitti immediati. La ristrutturazione e il miglioramento delle infrastrutture e della rete viaria del Mezzogiorno necessitano di uno sforzo di spesa che solo lo Stato può assumersi. Soltanto attraverso di esso l’Italia potrà riappropriarsi di interi comparti industriali in via di dismissione o ceduti al capitale straniero. Nello stesso tempo, di questo nuovo interventismo politico-economico gioveranno le piccole imprese. Ma perché ciò avvenga, perché lo Stato possa incaricarsi del ruolo di connettore tra le diverse aree del Paese e i diversi settori economici, è necessario che riacquisti la sovranità sulle proprie funzioni, che ha perduto rinunciando al controllo della moneta, della finanza pubblica e dell’ambito militare. Solo così facendo, potrà creare un forte polo industriale di Stato al sud, in cooperazione e non in competizione con piccole aziende private del nord. Come Gramsci invocava l’unione di operai e contadini contro il padronato del nord, oggi bisogna invocare l’unione di una nuova classe politica patriottica che sostituisca quella globalista attuale, piccoli imprenditori in crisi, disoccupati, emigrati e lavoratori precarizzati contro il Capitale globale e le organizzazioni sovranazionali. Questa unione dovrà essere politica prima che economica.
La saldatura degli interessi di tutte queste categorie permetterà, forse, l’attuazione di quella “via italiana al socialismo” preconizzata da alcuni ma in modo ancora vago e confuso. Permetterà la sintesi tra Meridione e Settentrione e la fine della disoccupazione e dell’emigrazione coatta; permetterà alle piccole aziende e alle grandi imprese di Stato di connettersi in un’economia prospera ma equa e sostenibile; permetterà non solo il miglioramento delle condizioni dei lavoratori ma la sperimentazione di una “democrazia economica” attraverso pratiche di auto e cogestione della produzione. Saranno le condizioni specifiche della penisola italiana ma nella consapevolezza del mutato scenario globale che potranno preparare una nuova e diversa unificazione.
Matteo Volpe
(n. 42 – luglio/agosto 2017)